Sguardo Pastorale

Fare squadra

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Colgo la felice coincidenza della festa della Beata Vergine del Carmine (16 luglio), a cui sono legato dai primi anni del mio ministero nel nostro Polesine, per “chiudere” idealmente un mese personalmente molto intenso e per condividere dei pensieri sollecitati da alcuni fatti e alcune letture.
Ho letto nei giorni scorsi un articolo comparso su Civiltà Cattolica (n. 4152): “Solitudine e disagio del prete: un problema strutturale”. Lascio a voi l’interessante lettura che si rifà ad alcuni studi socioreligiosi condotti in Brasile, Francia e a Padova (per l’Italia) per soffermarmi subito su quello che sembra essere il punto focale della questione: oltre alle cause ben note del senso di inadeguatezza ad affrontare le problematiche odierne e del burnout (stress…, ndr), emerge la solitudine legata al senso di spersonalizzazione, cioè la solitudine di una vita povera di relazioni a partire da quelle fraterne con gli altri presbiteri. Si tratta dunque di un problema strutturale se “il presbiterio non fa squadra” ma si limita ad una “patina superficiale di cameratismo”.

Mi fa pensare molto il fatto che tra presbiteri non si riesca ad instaurare delle relazioni profonde, se non con tutti almeno con alcuni per affinità o per condivisione di un cammino spirituale e pastorale. Non intendo riferirmi alle fraternità sacerdotali ma proprio all’amicizia fraterna, quella relazione che permette di confidarsi, di condividere dei pesi, di non sentirsi giudicati. L’io ancora prevale sul noi e forse diventa importante individuare dei “facilitatori” delle relazioni e della comunione (cfr. Comunicato finale della 69ª Assemblea Generale della CEI, 2016).

“Facilitare le relazioni e la comunione” è un bel programma da perseguire nel nuovo cammino che ci sta davanti, nel quale, in modo particolare, sono chiamato ad una maggiore responsabilità fraterna verso i confratelli. Se questa è una prima risposta che voglio darmi per avere un punto di riferimento saldo, so anche che non basterà un’operazione matematica per ottenere un buon risultato.

Il senso di vertigine non viene meno perché è profondo l’animo umano, anche quello del prete, e non ci si può appoggiare sulla pretesa di arrivare a conoscerlo fino in fondo. Cosa è necessario allora? Un reciproco paziente ascolto e un umile rimettersi in gioco.

Senza dubbio ogni ruolo chiede una sua fisionomia, strutturazione, e richiede che vengano esercitate le funzioni proprie, ma non certo la spersonalizzazione di chi lo assume o ne è incaricato. Anzi è proprio la persona che può rendere il ruolo un servizio, con l’umanità che lo caratterizza.

È questo quello che dobbiamo tenere presente anche tra noi preti: non c’è un gioco di ruoli dietro ai quali soffocare il nostro bisogno di incontrare sinceramente l’altro. Per sentirci ascoltati e capiti, e per ascoltare e capire, dobbiamo voler veramente incontrare l’altro. Liberi dal timore di un giudizio che è antievangelico.

Se dunque posso aiutare a costruire in fraternità la squadra e a superare le logiche superficiali di un cameratismo sterile, per questo sono disposto a fare la mia parte.

don Simone Zocca

delegato della pastorale