Per la fine della guerra in Ucraina

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Venerdì della II° settimana di Quaresima - Letture: Gen 37,3-4.12-13.17-28Mt 21,33-43.45
10-03-2023

Gesù amava le vigne, doveva conoscerle molto bene, forse ci avrà anche lavorato. Le vigne hanno ispirato sei parabole riferite dai Vangeli. Ha adottato la vite come simbolo suo e di noi (“Io sono la vite e voi i tralci”, Gv 15,5) e al Padre ha dato il nome di vignaiolo (Gv 15,1). Ci ha invitati a “rimanere nel suo amore” come il tralcio che rimane unito alla vite e solo così può portare frutto.

Ma oggi la vigna diventa simbolo di un dramma, di sangue e di tradimenti. Da una parte riconosciamo il vignaiolo di cui ci ha parlato Gesù: il suo amore per la vigna, la cura puntuale e il desiderio che porti frutto. Dall’altra vediamo che si ripete il dramma di sempre: l’amore non è amato; Dio è considerato come un antagonista dell’uomo.

Il Vangelo è semplice da interpretare. Si tratta di un’allegoria che descrive e interpreta la storia di Israele. Dio ha scelto Israele, lo ha chiamato, eletto, e si è preso cura di lui perché fosse il primogenito tra tutti i popoli. Ha posto la sua tenda in mezzo al popolo, gli ha donato la legge, e ha affidato la sua vigna amata a dei responsabili perché se ne prendessero cura.

Un bel giorno torna a visitare la sua vigna per raccoglierne i frutti; manda i profeti ma questi vengono bastonati e uccisi. Manda altri servi ma avviene la stessa cosa. Allora decide di mandare il proprio figlio, ma al culmine della cattiveria quei capi del popolo non solo non consegnano nessun frutto ma si considerano padroni della vigna e si accaniscono anche contro il figlio. «Costui è l’erede, venite, uccidiamolo e avremo noi l’eredità!». Il movente è sempre lo stesso: avere, possedere, prendere, accumulare. Questa ubriacatura per il potere e il denaro è l’origine di tante vendemmie di sangue della terra, è la «radice di tutti i mali» (1Tm 6,10).

Ma prima, accanto e dopo il dramma c’è qualcosa su cui dobbiamo sostare ed è l’amore di questo padrone per la sua vigna. Commuove vedere che Dio non si arrende, non è mai a corto di idee e ricomincia dopo ogni tradimento: bussa, insiste, osa prima con altri profeti, poi con nuovi servitori e infine con il figlio.

Gesù conclude così la parabola: «Che cosa farà il Padrone della vigna dopo l’uccisione del Figlio?». La soluzione proposta dai giudei è logica: una vendetta esemplare e poi nuovi contadini, che paghino il dovuto al padrone.

Ma Gesù non è d’accordo, Dio non ama le vendette. E infatti il Vangelo ci apre una porta nuova: la storia perenne dell’amore e del tradimento tra uomo e Dio non si conclude con un fallimento, ma con una vigna nuova. «Il regno di Dio sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

Se questa è la storia di Israele, la parabola apre al futuro: quella vigna sarà tolta e consegnata a un altro popolo che la farà fruttificare. Il riferimento a coloro che ascoltano Gesù e lo seguono e quindi alla Chiesa nascente appare evidente. Gesù è stato pietra d’inciampo per quei vignaioli omicidi e ora è pietra angolare del nuovo edificio che è la comunità dei discepoli del Signore.

C’è un grande conforto in queste parole. I miei dubbi, i miei peccati, il mio campo sterile non bastano a interrompere la storia di Dio. Il suo progetto, che è un vino di festa per il mondo, è più forte dei miei tradimenti, e avanza nonostante tutte le forze contrarie; quella vigna fiorirà.

Ma se questa Parola viene pronunciata oggi vuol dire che riguarda anche noi sempre a rischio di comportarci come l’antico popolo dell’alleanza; e i fatti di quest’ultimo anno ci parlano dell’attualità di questa parabola.

Quella vigna oggi è anche la terra dell’Ucraina, colpita, assediata, distrutta dalle bombe. I dati non ufficiali – perché non c’è nulla di ufficiale – parlano di 8.000 civili morti, di 13.000 feriti; di 500 bambini morti e 1000 feriti. 18 milioni di ucraini hanno lasciato il paese nel 2022, quasi tutti donne e bambini perché gli uomini devono andare a combattere. E poi le violenze, le fosse comuni. E quello che più ci inquieta e anche ci fa vergognare di fronte al mondo è che a combattersi sono due popoli cristiani, quasi a contendersi quella vigna.

Oggi siamo qui in comunione con tutte le diocesi italiane a pregare colui che ama la sua vigna, ama quelle terre e le persone che vi abitano, perché tocchi il cuore, perché si arrivi a una tregua, si ripristini la legalità e perché una forza esterna possa essere garante di un cammino di pacificazione che permetta a quelle persone di decidere democraticamente dove vogliono stare.

Ciò che Dio desidera non è un bagno di sangue che punisca i colpevoli, ma una vigna che non maturi più grappoli rossi di sangue e amari di tristezza, bensì grappoli caldi di sole e dolci di miele; una storia che non sia guerra di possessi, battaglie di potere, ma produca una vendemmia di bontà, un frutto di giustizia, grappoli di onestà. La guerra non porta da nessuna parte e porta con sé solo morte e distruzione. Oggi più che mai ne siamo consapevoli perché vediamo che le guerre dei nostri giorni non hanno né vinti né vincitori.

Facciamo nostra la preghiera del Beato Marco D’Aviano, frate cappuccino ordinato prete nella cappella del vescovado di Chioggia: «Allontana, Signore, le genti che vogliono la guerra; noi non amiamo altro che la pace, pace con Te, con noi e con il nostro prossimo. Di nuovo te lo chiediamo confidando nei meriti del Tuo sangue prezioso nel quale poniamo la nostra speranza che Tu voglia esaudire la nostra preghiera»

+ Giampaolo vescovo