Cari fratelli e sorelle, in particolare cari presbiteri e diaconi, questa solenne celebrazione è chiamata del crisma, un olio che ha segnato la nostra identità di discepoli del Signore.
È l’olio che ci ha consacrato nel giorno del nostro battesimo e confermato nel giorno della cresima; è l’olio con cui sono state unte le nostre mani nel giorno dell’ordinazione presbiterale; è l’olio sceso sul mio capo nel giorno dell’ordinazione episcopale.
Il pensiero oggi corre al giorno della nostra ordinazione presbiterale quando, con l’imposizione delle mani e la preghiera di ordinazione, siamo diventati preti. Siamo stati consegnati per sempre a Dio affinché a partire da Dio e in vista di Lui, potessimo servire gli uomini nelle cose che riguardano Dio.
Vorrei soffermarvi con voi sulle promesse sacerdotali che tra poco rinnoveremo alla vigilia del giovedì santo quando Gesù ha istituito l’Eucaristia e ha lavato i piedi dicendo nel primo caso: «Fate questo in memoria di me” e nel secondo: “Come ho fatto io, così fate anche voi”.
La prima domanda che tra poco vi farò è questa: «Carissimi presbiteri, la santa Chiesa celebra la memoria annuale del giorno in cui Cristo Signore comunicò agli apostoli e a noi il suo sacerdozio. Volete rinnovare le promesse, che al momento dell’ordinazione avete fatto davanti al vostro vescovo e al popolo santo di Dio?»
Il Signore, afferma la domanda, ha comunicato agli apostoli e a noi il suo sacerdozio. Quello che siamo non nasce da noi, ma da Lui. Gesù ha voluto che noi fossimo la continuazione del suo nuovo sacerdozio.
Il sacerdozio cristiano non è quello dell’Antico Testamento caratterizzato dall’idea di separazione e di mediazione. Il sacerdote per il Primo Testamento doveva essere separato da tutti perché Dio è sopra e separato e doveva mediare tra Dio e il popolo offrendo sacrifici per lodare Dio e per espiare le colpe sue e del popolo.
Con Gesù lo scenario è cambiato radicalmente. Gesù non è separato dal popolo, ma solidale; non è al di sopra ma è entrato in contatto con la nostra vita, si è rivestito della nostra umanità. Gesù, scrive la lettera agli Ebrei, non si vergogna di chiamare i peccatori fratelli (Eb 2,10-18).
Gesù è sceso nell’abisso della condizione umana e così ha coperto la distanza che separava Dio e l’uomo. Siamo salvati dall’obbedienza di Cristo, nuovo Adamo che, a differenza del primo Adamo si è nutrito della volontà del Padre.
Per il Nuovo Testamento c’è quindi un unico sacerdote che è Cristo. Egli è l’unico mediatore tra Dio e l’uomo. E c’è un unico sacrificio che è quello di Cristo in croce. E non c’è nessuna separatezza perché Gesù è pienamente solidale e dentro le vicende umane.
Tutto questo è partecipato a noi e per questo non siamo dei mediatori, ma siamo parte del popolo di Dio; non siamo separati, ma solidali. Il nostro sacerdozio porta gli abiti del pastore chiamato a stare davanti, in mezzo e dietro il gregge. Nessun privilegio, nessuna fuga nel sacro, ma solo la responsabilità di amare e dare la vita per il gregge e di presiedere nella carità.
La seconda domanda: «Volete unirvi intimamente al Signore Gesù, modello del nostro sacerdozio, rinunziando a voi stessi e confermando i sacri impegni che, spinti dall’amore di Cristo, avete assunto liberamente verso la sua Chiesa?»
Quel “volete” è un appello alla nostra libertà e un invito a vivere un rapporto intimo col Signore Gesù. Ci verrebbe da dire: «Ma l’abbiamo già fatto? Abbiamo già detto sì tanti anni fa?»
Io don Umberto Pavan l’ho detto 70 anni fa; noi don Angelo Busetto e don Alfredo Mozzato l’abbiamo detto 60 anni fa; io don Cesare Mucciardi l’ho detto 40 anni fa; io Giuseppe Tarì l’ho detto 30 anni fa.
Oggi risuona per questi fratelli che celebrano un particolare anniversario e per tutti noi la domanda di Gesù: «Volete unirvi più intimamente a me?» E poi continua la domanda: «Per conformarvi a Lui, rinunziando a voi stessi?». Sono inscindibilmente legate queste due affermazioni: unirsi intimamente a Lui esige che rinunciamo a noi stessi.
Questo abbiamo scelto nel giorno della nostra ordinazione: siamo stati espropriati da noi stessi per unirci a lui e seguire lui. Uno schiaffo alla pretesa dell’uomo di oggi che mette al primo posto la propria realizzazione. Ci è stata chiesta la vita per metterla a disposizione di un altro, di Cristo.
Cosa ci abbiamo guadagnato per noi stessi? È una domanda che non può avere il primo posto, dobbiamo invece chiederci: «Cosa posso dare ancora per Lui e così per gli altri?»
E poi l’invito a confermare le promesse di quel giorno: l’obbedienza, il celibato, la povertà, la preghiera, l’annuncio della Parola, la celebrazione dei sacri misteri per la santificazione dei fedeli.
Nulla è scontato, siamo tutti fragili, poveri, peccatori. La misericordia del Signore ci dona di ripartire sempre come quando Gesù chiede a Pietro per tre volte: «Mi ami tu più di costoro?» E come Pietro oggi ci è chiesto di ridire il nostro sì forse non con l’entusiasmo un po’ ingenuo della professione di Cesarea, ma con la consapevolezza di essere dei peccatori che il suo amore misericordioso conferma perché Lui è sempre fedele alla sua promessa.
La terza domanda: «Volete essere fedeli dispensatori dei misteri di Dio per mezzo della santa Eucaristia e delle altre azioni liturgiche, e adempiere il ministero della Parola di salvezza sull’esempio del Cristo, capo e pastore, lasciandovi guidare non da interessi umani, ma dall’amore per i vostri fratelli?»
Queste parole ci riportano ad alcuni aspetti centrali del nostro ministero: l’Eucaristia e le altre celebrazioni, il ministero della Parola, non la nostra, ma quella che opera la salvezza per coloro che l’ascoltano e la mettono in pratica, e tutto questo sull’esempio di Cristo capo e pastore.
In passato i preti facevano di tutto, erano il riferimento di un paese, le loro parole erano ascoltate e rispettate, erano preti, assistenti sociali, difensori dell’identità di un paese, autorità riconosciute accanto ad altre, costruttori di chiese, oratori, di scuole materne e di case per anziani. Oggi tutto questo è finito, oggi abbiamo solo la Parola, i sacramenti, di cui siamo ministri e non padroni, e ci viene chiesto di avere un cuore di pastore capace di amare, servire, tessere relazioni e costruire la comunità, accogliere tutti, essere uomini di comunione.
Ancora le parole della domanda: «Lasciandovi guidare non da interessi umani ma dall’amore per i vostri fratelli». Sono parole bellissime: nessuna nostalgia dei tempi passati, nessuna pretesa di ruoli d’onore o di riconoscimento, nessun bisogno di affermare il nostro ruolo o peggio ancora qualche potere sulle cose di Dio o sulle persone. La strada della sinodalità ci chiede di essere cristiani con tutti, di valorizzare carismi e ministeri battesimali, di essere una piccola cerniera che unisce, padri e non padroni, madri e non matrigne, agnelli e non lupi, uomini della mitezza e del perdono non dell’arroganza o della prepotenza.
Se viviamo così probabilmente non avremo né lapidi, né le vie intitolate di solito a coloro che vengono ricordati soprattutto per le cose fatte, ma i nostri nomi saranno scritti nei cieli perché abbiamo servito la crescita umana e cristiana delle persone.
Una quarta domanda è rivolta a voi cari fratelli e sorelle e dice così: «E ora, figli carissimi, pregate per i vostri sacerdoti: che il Signore effonda su di loro l’abbondanza dei suoi doni, perché siano fedeli ministri di Cristo, sommo sacerdote, e vi conducano a lui, unica fonte di salvezza».
È una preghiera un po’ interessata quella che vi viene chiesta: «Signore effondi sui nostri preti i tuoi doni in abbondanza, fa che siano fedeli e così cresceremo anche noi e cammineremo nelle vie del Signore unica fonte di salvezza».
Pregate per i preti di questa nostra diocesi, la preghiera è un modo di amare e prendersi cura dei vostri pastori. Non serve che vi dica quello che dovete chiedere, voi li conoscete e sapete di cosa hanno bisogno, conoscete i pregi per i quali potete ringraziare il Signore e conoscete anche i limiti e le fragilità per le quali pregare. Pregate e sostenete, pregate e sentitevi collaboratori e corresponsabili della stessa missione, pregate e siate anche voi costruttori di comunità fraterne e solidali.
C’è un’ultima domanda che sottovoce vi farò, dice così: «E pregate anche per me, perché sia fedele al servizio apostolico, affidato alla mia umile persona, e tra voi diventi ogni giorno di più immagine viva e autentica del Cristo sacerdote, buon pastore, maestro e servo di tutti».
Sento vere e necessarie le intenzioni di quest’ultima preghiera: perché sia fedele e perché diventi sempre più icona del buon pastore, maestro e servo di tutti.
Oggi davanti a voi presbiteri, diaconi, consacrati e consacrate, popolo santo di Dio, rinnovo anch’io il mio sì a Dio per servire questa Chiesa diocesana.
Ripeto il mio sì a distanza di due anni dal mio arrivo, consapevole delle ricchezze e delle fragilità di questa Chiesa. Ripeto il mio sì desideroso di unirmi anch’io più intimamente a Cristo per servire tutti voi senza nessun altro interesse che l’amore a Cristo e alla Chiesa sua sposa.
Il rinnovo delle promesse termina con queste parole: «Il Signore ci custodisca nel suo amore e conduca tutti noi, pastori e gregge, alla vita eterna». Sia questo il nostro unico desiderio, il Signore ci custodisca e ci protegga perché insieme, pastori e gregge, possiamo camminare nelle vie del Signore.