“Piglia qui … va’ qui da Maria vedova; lasciale questa roba, e dille che è per stare un po’ allegra co’ suoi bambini. Ma con buona maniera, ve’; che non paia che tu le faccia l’elemosina”, leggiamo verso la fine del capitolo 24° dei Promessi Sposi. Sono le parole del sarto del paese che manda qualcosa da mangiare ad una povera vedova e ai suoi figli, in tempo pur di carestia. In questi giorni continua ad infiammarsi il dibattito su tale questione, ma a me sembra che non prenda la direzione giusta. Dovrebbe essere chiaro che accogliere significa non solo fare la prima carità, ma poi essere in grado di dare la possibilità di una vita dignitosa. E ciascuno, come si diceva una volta, “deve fare il passo secondo la sua gamba”.
Accogliere indiscriminatamente, per poi impedire di muoversi, di circolare, di operare, di lavorare nelle condizioni umane, di metter su casa, di prospettarsi una vita normale, non è una soluzione. Anzi, in simili situazioni si espongono le persone al disprezzo e all’ostilità della gente, dato che la loro condizione li espone a trovare espedienti per vivere, magari ricorrendo allo spaccio di droga, a qualche furto o rapina, a fare i venditori ambulanti di merce contraffatta, alla prostituzione, al lavoro nero e a quant’altro.
Il dibattito non è tanto sul farli sbarcare o meno, ma sulle condizioni alle quali possono essere accolti. Altrimenti è meglio trovare la via per far loro capire che partire è un rischio e non un’opportunità, è un’occasione per farsi ulteriormente sfruttare e schiavizzare, più che offrire loro una via di libertà e di vita migliore.
Certo, bisogna rispondere all’emergenza di ‘salvarli dalle acque’, ma poi rimane tutto il resto, che è il di più. È piuttosto facile dire: “ve li portiamo lì”, poi arrangiatevi voi. Questo lo fanno già gli scafisti, dopo essersi fatti ben pagare e averli spogliati di tutto, anche della loro dignità! Accogliere significa dare loro quanto prima la possibilità di ‘cominciare a vivere con dignità’, insegnare loro il rispetto dell’altro e delle leggi del paese che li accoglie, dare loro la possibilità di guadagnarsi il pane con il sudore della fronte, come tutti, senza disumani sfruttamenti e in condizioni di alloggio pur modeste ma dignitose, potendo a loro volta contribuire al bene dello Stato in cui ritengono di fissare la loro dimora. Ci vorrà la pazienza costruttiva per creare queste condizioni, non anni e anni di precarietà, di inattività, di chiusura in recinti di cosiddetta accoglienza, e di sfruttamenti di vario genere o di violenze e illegalità. Questo sarà possibile se l’Europa, non solo l’Italia, lo concede e lo vuole.
Quando uno entra in Europa è in Europa e ha il diritto di muoversi e di cercare in Europa. Italia e Grecia sono in Europa, e dunque l’Europa si deve assumere la responsabilità di dire: o accogliamo o respingiamo, senza altre ipocrisie. Altrimenti diventa ancora una volta fare un po’ di carità, come fatto con la Turchia o con la Libia: vi diamo qualcosa, ma teneteveli là! Così stanno facendo anche con l’Italia: dovete accoglierli, ve li portiamo anche con nostre navi, ma una volta sbarcati sono vostri, pensateci voi.
Con tanto di accordi di Dublino e l’insipienza di chi li ha firmati! Per questo in passato chi arrivava cercava di fuggire prima di essere registrato in Italia. Ma poi i signori Stati vocini hanno sbarrato le frontiere, permettendosi tutti i respingimenti, giustificati solo dal fatto che non si trovavano nella condizione di “essere salvati dalle acque”. Ma anche chi fa accoglienza in Italia lo fa gratuitamente? E per quanto lo si può fare? E a quali condizioni? Anche il denaro pubblico con cui si finanzia chi gestisce le accoglienze sarà sempre disponibile?
+ Adriano Tessarollo