Come da consolidata tradizione nel giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre scorso è stata celebrata nella cappella dell’ospedale B. Vergine della Navicella a Chioggia una messa, organizzata in particolare dal reparto di oculistica, per invocare la protezione della santa siracusana sugli occhi e sulla vista. In quest’occasione il vescovo Giampaolo ha presieduto una messa pre-natalizia, concelebrata dal cappellano don Roberto Primavera e dai sacerdoti della parrocchia della Navicella, per tutto il personale dell’ospedale. Hanno partecipato il direttore generale dell’Ulss 3 Serenissima Edgardo Contato, la dottoressa Roberta Gavagnin, Direttore dell’Ospedale, e Massimo Zuin, Direttore dei Servizi sociosanitari insieme a molti medici e infermieri dell’ospedale, presente anche il rag. Carlo Alberto Tesserin; i canti della liturgia sono stati animati alla chitarra da Paola Casson.
Il vescovo nell’omelia – che riportiamo integralmente – partendo dalla Parola di Dio proclamata, ha sviluppato una riflessione sul “lamento”, ricordando che “lamentarsi è un sentimento umano comprensibile”, ma “molte volte il lamento diventa uno stile, un vero e proprio vizio, una forma di pessimismo”; “il lamento – ha osservato – può essere anche una preghiera”, ed ha poi concluso invitando a vivere il Natale come “un tempo in cui possiamo almeno zittire i lamenti e dire qualche grazie, riconoscere il bene che c’è attorno a noi”.
Celebriamo questa Eucaristia natalizia nel giorno di S. Lucia in questo luogo che per molti è abitato dalla notte della malattia in attesa di un po’ di luce come dice il nome di questa martire del IV secolo. E invochiamo che presto e per tutti arrivi la luce del giorno, quella luce che permette di riprendere la vita di ogni giorno. La Parola di questo venerdì di Avvento ci invita a riflettere sul lamento. Si tratta di una manifestazione di dolore o di rammarico, di insoddisfazione o anche di risentimento per qualcosa che è successo o che ci è successo. Noi ci lamentiamo per tante cose: la salute, gli anni che passano, per qualche persona che non ci piace, per le cose che succedono nel mondo, per quello che non funziona, perché non ci dicono grazie, perché non viene riconosciuta un’azione buona che abbiamo fatto. Ci lamentiamo anche di Dio quando sembra si sia dimenticato di noi, non risponda alle nostre domande o preghiere, perché non interviene a fare giustizia, perché non ci ridona la salute. Lamentarsi è un sentimento umano comprensibile. Molte volte è anche giusto, ci sta perché le cose non vanno come dovrebbero andare. Molte volte però il lamento diventa uno stile, un vero e proprio vizio, una forma di pessimismo proprio di chi vede sempre il bicchiere mezzo vuoto e non riconosce mai che potrebbe essere guardato anche come mezzo pieno. Il lamento può essere anche una preghiera. Nella Bibbia ci sono i salmi di lamentazione nei quali il credente piange, soffre per le cose che non vanno bene e invoca Dio quasi a volergli dare uno scrollone perché intervenga. Altri salmi contengono i lamenti per i propri peccati, per gli errori fatti. Il credente piange e si lamenta per non essere stato fedele a Dio. Verrebbe da dire che c’è un lamento buono e uno cattivo o almeno problematico. Quello buono è proprio di chi ha l’umiltà e il coraggio di lamentarsi di sé stesso, delle proprie lentezze, fragilità e tradimenti. Quello cattivo è quello di chi vede attorno a sé tutto sbagliato e mai si interroga su sé stesso. Gesù oggi ci parla del lamento nei suoi confronti: «È venuto Giovanni Battista che non mangiava e non beveva e avete detto che era un indemoniato; sono venuto io che mangio e bevo e dite che sono un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori». E aggiunge: «Ma la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie». Gesù ci chiede di fermarci e studiare il nostro modo di lamentarsi. È buono, giusto o è sbagliato, scorretto, una fuga, una semplificazione della situazione.
Mi chiedo e provo a rispondere a questa domanda: «C’è un modo giusto di lamentarsi?». Anzitutto credo serva umiltà e sapienza, come dice Gesù. È importante non fermarsi alla superficie delle cose. Cercare sempre le ragioni o le giustificazioni per quello che succede attorno a noi. Qualcuno potrebbe dire che questa è ingenuità, ma è una “benedetta ingenuità” quando riguarda le persone. Una seconda attenzione è quella di guardare noi stessi: Gesù direbbe che dobbiamo riconoscere la trave che c’è nel nostro occhio prima di lamentarci della pagliuzza che c’è nell’occhio del fratello. Una terza attenzione credo sia quella di cercare sempre il positivo, il bene che c’è dappertutto anche se non è mai perfetto, ma sempre perfettibile.
Il Natale non è la festa dell’ingenuità, non è la sagra del buonismo, non è la finzione di volerci bene quando in realtà non è così. Il Natale è un tempo di verità ma di una verità che non uccide ma edifica. Dio si fa uomo perché ama l’umanità, ogni essere umano. Dio non ci guarda per lamentarsi di noi anche se ne avrebbe buoni motivi; Dio si fa prossimo, pianta la sua tenda in mezzo a noi per farci crescere. A Natale sarebbe bello poter cantare col salmo: «Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco e mi hai rivestito di gioia» (Sal 30, 12).
Natale è il tempo in cui possiamo almeno zittire i lamenti e dire qualche grazie, riconoscere il bene che c’è attorno a noi. Cambiare non è sempre rovesciare tutto, ma costruire sul bene, poco o tanto che sia, un bene più grande.
Il Signore ci doni quel lamento buono che costruisce e non distrugge. E ci conceda di ascoltare quel lamento che sa di sofferenza e che dobbiamo tutti cercare di ascoltare.
Giampaolo, vescovo