SGUARDO PASTORALE

Tutt’altro che una bestemmia

crocefisso
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“Non sarà stata una bestemmia?”, mi chiede l’amico Beppi raccontandomi un momento cruciale della sua vita. “Mi sentivo mancare la terra sotto i piedi, stavo per svenire, e i miei occhi hanno incrociato quelli del crocifisso e gli ho gridato: «Mi hai voluto tu, ora aiutami»”. Un grido di rabbia, di scoramento, ma anche di fede e di abbandono, tutt’altro che una bestemmia. È successo una delle tante mattine in cui egli si alzava molto presto per raggiungere la stalla con i suoi numerosi tori e poi dedicarsi alla cura del frutteto. Sì, era un contadino.

Si era sposato una ventina di anni prima e aveva due figli adolescenti. Per la famiglia aveva investito in quelle attività contraendo anche un grosso debito, ma pensava che con il dono della salute e la sua buona volontà, vi avrebbe fatto fronte. E così è stato, ma quella mattina era successa una cosa inaspettata: la moglie non c’era più e il figlio maggiore, stranamente già in cucina, aveva spiegato: “Se n’è andata”. “Come? Quando? Perché?”. Aveva scelto l’ingegnere.

Sì, c’era stata qualche incomprensione, la pressione delle scelte fatte aveva forse incrinato un po’ la serenità familiare, non c’era molto spazio per gli svaghi e le vacanze, ma nulla faceva presagire un gesto simile. E ora? Chi avrebbe organizzato la vita famigliare, sostenuto i figli in un momento così delicato della loro crescita, condiviso con lui le gioie e le fatiche della vita? Quel crocifisso l’ha aiutato davvero e l’iniziale disorientamento ha lasciato il posto a una coraggiosa determinazione. Aveva fede. Alla domenica raggiungeva la cittadina vicina e, prima di partecipare all’Eucaristia, si accostava al sacramento della confessione. Aveva trovato un sacerdote che lo sapeva ascoltare, che non lo giudicava ma, anzi, lo incoraggiava e gli dava le motivazioni spirituali per continuare nel suo percorso di donazione. Tornava a casa giusto in tempo per preparare il pollo allo spiedo e lo “schizzotto”, il pane tipico dei Colli Euganei. E i figli commentavano: “Cosa c’è, papà, di più gustoso?”.

Lui sapeva e soffriva. Fino al giorno in cui, a distanza di cinque anni, gli giunse un’altra notizia improvvisa: “Mamma ha un cancro, ha pochi mesi di vita”. L’ingegnere l’aveva abbandonata e lei era tornata dalla mamma anziana che non riusciva a badare nemmeno a se stessa. Il figlio più vecchio si era preso l’impegno di accompagnarla ogni giorno all’ospedale per la chemioterapia. Aveva insegnato loro a rispettarla e ad amarla, nonostante essi avessero avvertito e più volte protestassero chiaramente il senso dell’abbandono.

Aveva ancora una cosa da insegnare. Un giorno si presentò lui, sereno, disponibile, con la sua macchina. “Che fai qui?”. “Vieni, da oggi ti porto io”. “Dopo quello che ti ho fatto?”. “Ora hai bisogno di me, e, se vuoi, ti porto a casa”. Gli amici hanno commentato: “Ma tu sei pazzo!”. Sì, com’è pazzo chi sa perdonare, chi sa donarsi fino in fondo. Gli affari avevano preso la piega sperata e così ha potuto donarle ancora giorni sereni, la gioia delle piccole cose, il coraggio di tornare a guardare in faccia i suoi figli.

E il giorno prima di morire si era fatta promettere che egli le sarebbe stato vicino in quel momento e avrebbe tenuta stretta la sua mano. Mentre lo racconta gli occhi si inumidiscono e a mio nipote che esclama “Tu sei un santo, Beppi”, egli risponde “No, non potevo fare diversamente”.

Egli non aveva mai smesso di amarla e quell’amore aveva raggiunto la sua vetta più alta nell’esperienza del perdono. Ora ha ottant’anni ed è ancora pieno di vita. Ha un’altra moglie e tanti amici. Una tale capacità di amare è diffusiva e contagiosa, soprattutto è possibile.

Don Francesco Zenna