La Pasqua di quest’anno vorrei raccoglierla attorno ad alcune parole che mi sembra possano interpretarne bene il significato attuale.
Anzitutto il termine fragilità. La fragilità del Papa, dopo la lunga degenza in ospedale e ora il tempo della convalescenza, rappresenta bene la fragilità di questo nostro tempo.
È la fragilità della pace che fa piccoli passi in un cammino di cui non vediamo la meta. È la fragilità dell’Europa che di colpo, senza l’ombrello americano, si ritrova piccola e fragile mentre per secoli ha creduto di essere il centro del mondo. È la fragilità dell’economia quando lo spettro dei dazi mette a nudo tutta la sua vulnerabilità. È la fragilità della democrazia che i nuovi potenti che governano paesi importanti umiliano mostrando una specie di delirio di onnipotenza che si fa beffe delle regole e dei diritti. È la fragilità delle nostre comunità locali al centro di infinite polemiche, accuse, rivendicazioni che non smettono di evidenziare quello che non si fa senza che mai una parola di incoraggiamento o di comprensione esca dalla bocca di chi accusa. E aggiungo tutte le nostre fragilità, quelle che ciascuno conosce di sé stesso: dalla salute alle relazioni, dagli affetti alla vita familiare e lavorativa.
La fragilità caratterizza la Pasqua dove noi siamo chiamati a sostare sul mistero di Gesù che ci mostra non solo la fragilità ma, molto di più, quella che possiamo chiamare l’impotenza di Dio. E questa è la seconda parola: impotenza.
L’icona di Gesù che viene arrestato senza alzare un dito, che viene percosso e flagellato, deriso e umiliato, che tace davanti a Pilato e accetta la morte infame sulla croce ci testimonia quella che osiamo chiamare l’impotenza di Dio di fronte alla libertà dell’uomo.
Quanto abbiamo pregato e preghiamo per la pace. Quanto siamo scandalizzati dai morti di tutte le guerre che ascoltiamo nei racconti dei media. Quanto vorremmo un intervento forte e risolutivo di Dio di fronte all’inesauribile male del mondo. E invece della risposta come noi vorremmo, ci viene mostrato un Dio crocifisso proprio dalla libertà e cattiveria di coloro che Lui ha creato per amore e con amore e di fronte ai quali appare impotente.
Il dramma dell’uomo di oggi è il dramma di Dio che soffre e muore ma non smette di amare e sulla croce ci regala lo scandalo del perdono. Vorremmo un Dio arrabbiato, in collera con l’uomo, un Dio giustiziere che finalmente separa il bene dal male e, invece, la settimana santa ci regala un Dio che ama fino alla fine e sceglie di vincere l’odio con l’amore e il perdono.
Nella sua impotenza Gesù ci regala la strada, l’unica strada che potrebbe rispondere al desiderio di pace e di giustizia: non la vendetta, non l’occhio per occhio e dente per dente, ma il perdono che spezza la catena del male e apre il sentiero della pace. All’impotenza Dio non risponde con la potenza, ma con l’arma apparentemente spuntata della misericordia e dell’amore che spera di toccare e ferire il cuore dell’uomo per guarirlo.
La terza parola è la speranza. È lo slogan del giubileo scelto da papa Francesco: «Spes non confundit», la speranza non delude, o meglio ancora la speranza non ci prende in giro, non ci confonde, non è una finzione, non è una scappatoia, non ci illude.
La speranza cristiana non è generico ottimismo, ma si fonda sulla Pasqua di Cristo che ha vinto la morte e ci fa dire ogni domenica: «Credo la vita eterna». La fragile barca della nostra vita è ancorata nella Pasqua. «La speranza cristiana – scrive il Papa – consiste proprio in questo: davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve la certezza che, grazie a Cristo, alla sua grazia che ci è stata comunicata nel battesimo, la vita non è tolta ma trasformata» (Spes non confundit 20).
La speranza non è una cosa, non è un atteggiamento, non è uno slogan, ma è un cammino o meglio un pellegrinaggio. È il pellegrinaggio della nostra esistenza su questa terra verso una meta che non è il nulla dopo la morte, ma è quello che vince la fragilità e l’impotenza che ogni giorno sperimentiamo nella nostra vita e tocchiamo con mano attorno a noi.
Il Giubileo cade proprio nell’anno della fragilità e dell’impotenza e ci consegna l’impegno di diventare pellegrini di speranza. La speranza come pellegrinaggio è la richiesta che Dio ci fa: quella di cambiare il mondo con piccoli passi, quelli che nessuno vede e a nessuno sembrano efficaci. Mi viene un piccolo paragone: la distanza tra la terra e la luna è di 382.000 km. Colpiscono i 382.000 km che ci separano dalla luna, ma nell’arco della nostra vita probabilmente ogni essere umano ne percorre molti di più di chilometri in auto, in aereo, a piedi. Se ogni chilometro fosse abitato dalla giustizia e dalla pace ognuno nella sua esistenza raggiungerebbe e andrebbe anche oltre la luna. Ecco perché la speranza è un cammino, un pellegrinaggio nutrito non di parole ma di fatti o meglio di passi, piccoli passi, tanti passi, solo passi. Buona Pasqua e buon cammino.
+ Giampaolo vescovo