SPECIALE FRANCESCO

Facebooktwitterpinterestmail

SPECIALE FRANCESCO

1. UN ANNO CON PAPA FRANCESCO

2. RIFORMA

3. MISERICORDIA

4. TENEREZZA

5. PERIFERIE

6. CULTURA DELL’INCONTRO

 

 

 

 

1. UN ANNO CON PAPA FRANCESCO

La gioia del Vangelo. Il Vangelo della gioia

Bergoglio non svolge il suo compito come un esecutore di un piano prestabilito, ma reagisce ai richiami e agli impulsi del cuore. Di prestabilito rispetto al suo operare c’è il suo essere, cristiano e umano, la sua intelligenza, la sua fede, la sua umanità, la sua storia… Un anno dopo rimane lo stupore che ogni giorno si rinnova con parole nuove e antiche  

Chi volesse stendere un resoconto organico su Francesco Papa a un anno di distanza dalla sua elezione, dovrebbe scrivere un libro, come alcuni hanno fatto o stanno facendo, che però rimarrebbe incompiuto, sempre incompiuto perché appena pubblicato sarebbe invecchiato dalla novità detta o fatta da Papa Francesco. La novità e imprevedibilità di parole e gesti è un dato forse caratteriale, legato a una personalità creativa o indotta dalla creatività dello Spirito che abita serenamente in lui e lo rende pronto a ogni soffio.

Bergoglio non svolge il suo compito come un esecutore di un piano prestabilito, ma reagisce ai richiami e agli impulsi del cuore. Di prestabilito rispetto al suo operare c’è il suo essere, cristiano e umano, la sua intelligenza, la sua fede, la sua umanità, la sua storia di figlio di emigrati italiani, la sua esperienza maturata nell’Argentina dei desaparecidos e vissuta tra la complessità confusa e conflittuale del mondo latinoamericano, senza dimenticare la forza e l’ordine interiore forgiato dagli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Tutto questo egli lo ha unificato nel nome-simbolo di Francesco, che nella visita ad Assisi (4 ottobre 2013) ha caricato di ulteriori significati rispetto alla primitiva intuizione. Così è per il suo linguaggio, il linguaggio del cuore, come ha detto di recente a una comunità pentecostale protestante: un linguaggio – egli diceva – fatto di nostalgia e di gioia, di nostalgia per la separazione e di gioia per la fraternità ritrovata. “Siamo fratelli”, diceva con voce sommessa e suadente, e possiamo dircelo tra le lacrime come Giuseppe in Egitto quando incontrò i fratelli che lo avevano venduto e si riconobbero.

Questa mi sembra la cifra del pontificato di Francesco, fratello universale, piegato sulle piaghe di Cristo impresse nella carne di tutti coloro che soffrono, che lava e bacia i piedi della ragazza musulmana, abbraccia poveri e ammalati, prende in braccio i bambini. Per essere fratello credibile ha ritenuto necessario spogliarsi di titoli e vesti che potessero tenerlo lontano dalla gente umile e semplice, quella della piazza e quella della casa abitualmente abitata, la modesta dimora di Santa Marta, condivisa con gli ospiti fissi e occasionali.

Francesco è nome universale da quando il Santo di Assisi ha voluto chiamare fratello e sorella anche il sole e la luna, il fuoco e l’acqua, e ogni essere amato da Dio anche se lebbroso, rifiutato ed escluso dalla società civile. Ha detto – con tono di rimprovero – “chi ha pianto” per i naufraghi di Lampedusa? e ha detto pure “chi sono io” per giudicare un fratello che ha una tendenza omosessuale? Ha domandato a se stesso e alla Chiesa intera, con un questionario, “come possiamo avvicinare e considerare fratelli e sorelle” tutte quelle persone che hanno avuto un matrimonio fallito e una famiglia divisa con gravi danni e sofferenze per coniugi e figli?

È il Papa della misericordia e della tenerezza, che ha chiesto alla Chiesa di uscire dalle sue sicurezze difese a suon di “bastonate inquisitorie”, ripiegata su se stessa alzando barriere moralistiche o disciplinari che oscurano la brillante luminosità del Vangelo. La sua attitudine a stare in mezzo alla folla, anche quando è pressante e potrebbe essere pericoloso: “Si deve avere fiducia nella gente”. Essa non è generica accozzaglia di individui, ma è formata da persone amate da Dio, e suo popolo che detiene il motivo e il fine dell’esistenza del pastore. Per questo egli ha marcato la sua identità sacramentale di vescovo e la sua appartenenza ecclesiale alla Chiesa di Roma, presidente nella carità delle Chiese sparse nel mondo. A questo popolo radunato per la sua elezione fin dal primo incontro ha chiesto d’invocare la benedizione di Dio per lui. L’immagine di Francesco curvo davanti alla folla silenziosa e orante in piazza S. Pietro nel momento iniziale del suo pontificato, quando nasce come per germinazione la sua paternità/fraternità universale è stata e rimane nella memoria e nella coscienza collettiva la scintilla che ha acceso una grande luce sulla sua missione.

Vescovo e popolo si danno la mano come due realtà che agiscono sempre insieme. Lo ha ricordato anche nel discorso di Aparecida durante la Gmg. In questi tratti, troviamo anche il senso del rinnovamento pastorale, che suona come una rivoluzione ed esige una conversione: conversione del cuore e conversione pastorale nel porre i poveri al centro, non solo come scelta, ma nel senso di una Chiesa veramente povera.

Un anno dopo rimane lo stupore che ogni giorno si rinnova con parole nuove e antiche, che Francesco ha raccolto nella “Evangelii gaudium”, una “summa” dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, l’“eterna novità” che è Cristo (n.11), l’unica ragion di vita della Chiesa e dei suoi pastori. Nella sua parola è la gioia dei discepoli e la salvezza del mondo: la gioia del Vangelo, il Vangelo della gioia. (Elio Bromuri)

 

 

 

 

2. RIFORMA

“Niente ideologia, solo qualità della vita cristiana”

Massimo Faggioli: “Oggi la Chiesa è in ritardo nell’accettare, nel suo magistero, una certa idea di evoluzione della persona umana”. Ancora più grave – a suo parere – la questione istituzionale: “Oggi la Chiesa è ancora molto clericale”. Ma l’elezione di Pap Francesco ha aperto un percorso nuovo e diverso.

 

Francesco, “il riformatore”. Mentre si chiude il primo anno di pontificato di Papa Bergoglio, tante sono le riflessioni sulla “ventata di novità” portata nella Chiesa universale dal primo Pontefice latinoamericano. Il tutto viene condensato in una parola: riforma. Un termine “inscindibile dalla storia della Chiesa”, sottolinea Massimo Faggioli (nella foto), docente di storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis / St. Paul (Usa). Dagli Stati Uniti, in cui vive e insegna, lo storico ci offre una lettura a tutto tondo del “percorso nuovo e diverso” aperto dall’elezione di Papa Francesco.

La parola riforma è ritornata spesso nella storia della Chiesa. Quale impatto ha avuto nel corso dei secoli?

“La parola riforma è inscindibile dalla storia del cristianesimo – e questo dice molto del significato della frequenza della parola ‘riforme’ nel lessico politico contemporaneo. Fin da subito, prima del Medioevo, si ha la sensazione della necessità del ritorno a una ‘forma’ originale che è andata perdendosi nella storia. In questo senso, la storia del cristianesimo e della Chiesa cattolica, in particolare, è una storia di riforme (quella di Gregorio VII del secolo XI, quelle dei nuovi ordini religiosi medievali, quella del Concilio di Trento, del Vaticano II) ma anche di riforme mancate (quelle che portarono alla Riforma protestante e alla rottura dell’unità del cristianesimo in Occidente). Di qui l’importanza del momento attuale: comprendere quali riforme sono necessarie, nella Chiesa di oggi, al fine di evitare di parlare tra qualche decennio di ‘mancate riforme’”.

A un anno dall’elezione, Papa Francesco viene annoverato dall’opinione pubblica, ma non solo, tra le grandi figure riformatrici del passato. Quali analogie e quali differenze? E cosa spinge a una tale lettura?

“Le differenze sono principalmente nel carattere globale e universale della Chiesa cattolica di oggi rispetto ai secoli precedenti, ma anche solo rispetto a 50 anni fa. In questo c’è una differenza anche rispetto a Giovanni XXIII del Vaticano II. Ma vi sono pure analogie, nel senso che Francesco è una figura che come Roncalli, nel solco della tradizione, la reinterpreta in un modo che cattura l’attenzione di tutti perché parla della qualità della vita cristiana come bussola della riforma e mette da parte ogni tentazione d’ideologizzazione della riforma”.

Sono trascorsi cinque secoli dal “Libellus ad Leonem X” (1513) con cui veniva suggerito al Papa un programma di riforma radicale. Ora è lo stesso Pontefice a istituire un Consiglio di cardinali per “aiutare il Santo Padre nel governo della Chiesa” e per “studiare un progetto” di riforma. Corsi e ricorsi storici?

“I due momenti sono simili. Vi è la sensazione, oggi come all’inizio del Cinquecento, che la Chiesa sia in ritardo: nel Cinquecento rispetto alla cultura umanistica e delle lettere e all’idea della necessità di una credibilità morale personale; oggi è un ritardo della Chiesa nell’accettare, nel suo magistero, una certa idea di evoluzione della persona umana che è avvenuta nella cultura dell’ultimo mezzo secolo. Ancora più grave è la questione istituzionale. Oggi la Chiesa è ancora molto clericale: meno di 50 anni fa, ma ancora molto più del necessario. Infine, la Chiesa di oggi è diversa da quella del ‘Libellus’ del 1513 anche perché non è più dominata da alcune élite, ma è molto più ‘popolare’ nel senso di élite aperte al ricambio – più di una volta – e molto più trasparente e sotto il giudizio impietoso dei media”.

“Ecclesia semper reformanda”, recita uno slogan protestante; “Ecclesia semper purificanda”, afferma il Vaticano II in “Lumen gentium” (8): due affermazioni che sembrano intrecciarsi guardando all’anno appena trascorso.

“Riforma e purificazione devono andare sempre insieme: altrimenti la prima è soltanto una riorganizzazione burocratica e la seconda soltanto una spiritualizzazione dei problemi che non incide sulle pratiche comunitarie e collettive. A guardare alla Chiesa degli ultimi anni, specialmente nell’anno prima del Conclave del 2013, il rischio è stato quello di procedere a un’opera di pulizia – o a una semplice ‘operazione di polizia’ – che lasciasse intatte le mentalità e la coscienza della Chiesa stessa. Ma l’elezione di Papa Francesco ha aperto un percorso nuovo e diverso”.

Un percorso di conversione che va oltre le strutture e interpella ciascun credente?

“In realtà è sempre stato così, anche con Gregorio VII alla fine del secolo XI: ogni percorso di riforma istituzionale attecchisce solo se si collega a un cambiamento delle mentalità e dei costumi. La differenza è che oggi quello che fa il Papa è sotto gli occhi, sotto il controllo di tutti, diversamente da prima, soltanto qualche decennio fa. In questo senso il processo di riforma della Chiesa oggi è più ‘papalista’ di una volta, e questo è un rischio, nel senso di una Chiesa che ha sempre più bisogno del Papa: ma il Papa ha detto che non è questo che vuole…”.

In definitiva, cosa chiede Papa Francesco?

“Poveri, misericordia e periferie sono le parole chiave del Pontificato. Come ho detto nel mio libro ‘Papa Francesco e la chiesa-mondo’ (Armando Editore, 2014), queste parole chiave aprono non solo un periodo di riforma nella Chiesa, ma anche un’epoca storica nuova per il cattolicesimo: il primo Papa di una Chiesa cattolica veramente globale non solo dal punto di vista dei recettori del messaggio, ma anche da quello di coloro che il messaggio lo inviano. Sotto Papa Francesco vediamo a un interessantissimo cambiamento del rapporto tra urbs e orbis nella Chiesa cattolica”. (Vincenzo Corrado)

 

 

 

3. MISERICORDIA

“Il perdono consente di aprirsi all’amore alla vita generativa”

Massimo Recalcati, psicoanalista : “Il nostro è il tempo della ‘notte dei Proci’. Sembra che l’unica forma possibile della legge sia quella dell’assenza di legge… dove l’unica forma possibile della legge sia quella del godimento senza limiti. Dunque è il tempo dell’odio e della prepotenza, della rivalità di tutti con tutti… Per questo la parola di Francesco suona forte nella sua inattualità”

 

“Dio non si stanca mai di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedere la sua misericordia”. È una delle frasi più note finora pronunciate e scritte (nella “Evangelii gaudium”) da Papa Francesco. Il “Dio paziente” perdona infinitamente, afferma il pontefice venuto dai confini del mondo. Buonismo senza limiti? Oppure interpretazione fedele e attuale del vangelo di Gesù? “Il cristianesimo è una esperienza radicale dell’amore che trova la sua prova più alta propria nel gesto del perdono”, sostiene, interpellato in proposito, Massimo Recalcati, psicoanalista, docente universitario (attualmente insegna Psicopatologia del comportamento alimentare a Pavia), direttore scientifico dell’Irpa, Istituto di ricerca di psicoanalisi applicata, e supervisore clinico presso il reparto di neuropsichiatria infantile all’ospedale Sant’Orsola di Bologna. Il professor Recalcati, studioso dei comportamenti umani e delle moderne patologie, è fondatore di Jonas, onlus senza fini di lucro, centro di clinica psicoanalitica per i nuovi sintomi, oggi presente in varie città lungo tutta la Penisola.

 

Una delle parole-chiave del primo anno di pontificato di Bergoglio è certamente “misericordia”. È un termine cui papa Francesco fa spesso ricorso, soprattutto per parlare di un Dio buono, che “perdona sempre”. Questa parola – forse un po’ emarginata nel nostro vocabolario corrente – a lei quali sentimenti suscita? “Misericordia” è un termine buono solo per chi crede o può avere un valore universale, un significato “laico” altrettanto ricco e profondo?

“Penso che la grande sovversione della predicazione di Gesù stia tutta nella centralità che essa attribuisce alla misericordia e al perdono. Laicamente non stabilisco nessuna differenza tra le due parole. Il cristianesimo è una esperienza radicale dell’amore che trova la sua prova più alta propria nel gesto del perdono. Ma cosa significa la parola ‘perdono’? Se il pontificato di Francesco si apre con questa parola è perché vi riconosce l’essenza del cristianesimo. La predicazione di Gesù completa la legge per come era stata trasmessa nell’Antico testamento. Il perdono, la centralità dell’amore come dono attivo di se stessi senza pretese di risarcimento, ha, al tempo stesso, sospeso e integrato la legge del Dio di Mosè. Prendiamo l’esempio dell’adultera. Quale fu il gesto di Gesù? Innanzitutto quello di sospendere l’applicazione automatica della legge del taglione, della legge che punisce con la morte e la lapidazione le donne adultere. Ma questa sospensione della legge che si deve al perdono consente di aprirsi a una nuova legge che non è quella della vendetta ma quella dell’amore. Papa Francesco vuole riportare la Chiesa alla parola di Gesù. Vuole sospendere la logica della lapidazione per aprire il cuore a una altra versione della legge. Il perdono non dipende da quello che l’altro fa. È un dono asimmetrico, sbilanciato, disinteressato, assoluto. Non esige contropartite. Eccede quella logica dello scambio che invece domina il nostro tempo. Una vita non diventa forse umana quando si emancipa dallo spirito di vendetta e dalla violenza per accedere alla gioia misteriosa del perdono?”.

 

Attraverso la sua professione lei avverte la necessità, la richiesta di misericordia e di perdono fra le persone che incontra, che si affidano a lei?

“Lo psicoanalista lavora sul dolore delle persone che gli si rivolgono. Questo dolore può avere tante forme. È il dolore del giovane senza speranza, del tossicomane che dissipa la propria vita, del depresso che non ha più futuro, di chi ha subito un lutto che sembra inelaborabile, di chi si sente schiacciato dall’angoscia e dal panico, di chi si sente perso, smarrito o schiavo da dipendenze che non è in grado di governare con la forza di volontà, di chi subisce una delusione d’amore… Ma esiste una radice comune a tutti questi volti della sofferenza. Questa radice comune è il sentimento di non riuscire a rendere la propria vita generativa, capace di dare frutti. Molti pazienti vivono nell’odio invidioso e nell’isolamento rancoroso non perché non riescono a trovare l’amore, ma perché hanno paura dell’esposizione assoluta che l’incontro d’amore esige. Allora preferiscono la fuga nella malattia al rischio di questo incontro”. 

 

Dal “perdono” nascono – secondo Papa Francesco – pace, serenità, nuove relazioni… Ciò potrebbe valere sia per i singoli sia nei rapporti tra i popoli e gli Stati. Misericordia e perdono possono essere considerati come “strumenti” della politica o della diplomazia nella nostra era globale?

“Il nostro tempo è il tempo della ‘notte dei Proci’. È il tempo in cui sembra che l’unica forma possibile della legge sia quella dell’assenza di legge. O, meglio, è il tempo dove l’unica forma possibile della legge sia quella del godimento senza limiti. Dunque è il tempo dell’odio e della prepotenza, della rivalità di tutti con tutti… Per questo la parola di Francesco suona forte nella sua inattualità. Egli invita a lasciare cadere il feticismo degli oggetti per ridare valore al piano della relazione, all’esperienza dell’amore come dono. In un tempo dove la potenza seduttiva dell’oggetto sembra trionfare, Papa Francesco mostra tutta la menzogna contenuta in questa seduzione. Il bene non è nel ‘nuovo’, non è nel possedere il nuovo oggetto, il bene è nel rendere la propria vita capace di dare frutti, capace di essere generativa. Non è questo il solo peccato che la predicazione di Gesù riconosce? Il peccato di sprecare il proprio talento? Non è questa la colpa più grande dell’uomo, forse la sola colpa degna di questo nome? Non è questa la responsabilità dei Proci che scatena l’ira di Ulisse? Fare della propria vita niente”.

 

Questo Papa è ritenuto un comunicatore efficace, un uomo di fede che sa parlare al cuore delle persone, forse anche dei non credenti: lei cosa ne pensa?

“Francesco non è un esperto di tecnica della comunicazione. Non è da questo che scaturisce il suo carisma. In Italia abbiamo conosciuto leader che hanno guadagnato il consenso grazie alle loro capacità mediatiche. Ma non è il caso di Francesco. Qui c’è qualcosa in più. E quello che c’è in più è la forza della sua enunciazione. Non solo quello che dice e come lo dice ma da dove lo dice. E da dove parla Francesco? Parla dal posto di un padre che ha scelto la via della sua più radicale umanizzazione, che non nasconde la sua fragilità e la sua vulnerabilità; da un padre che invita all’amore e al perdono perché sa cosa è amore e perdono. La forza di questo Papa non risiede tanto nella sua capacità di parlare alla gente, ma nel suo gesto, nei suoi atti, nella sua testimonianza, in come sa incarnare il Verbo che trasmette. Per questo egli sposta le persone e i cuori”. (Gianni Borsa)

 

 

 

4. TEnerezza

“Con quel buonasera da buon parroco ha ridotto le distanze”

Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta non ha dubbi: “Il Papa è uno psicologo”. E ancora: “Nei suoi discorsi attinge spesso all’esperienza quotidiana… E le persone si sentono coinvolte nella loro intimità, nei loro sentimenti, nelle loro emozioni… Per di più, tutto questo è molto mediatico”. Inoltre è anche un Papa dei gesti. Da “laica”, grandi attese per il ruolo delle donne nella Chiesa.

Una rilettura del primo anno di pontificato di Papa Francesco attraverso la sua scelta della tenerezza come stigma del suo insegnamento, delle sue parole e dei suoi comportamenti.

 

Il Papa? “Uno psicologo”, che annulla le distanze con la gente per raggiungere tutti. E’ l’identikit tracciato da Anna Oliverio Ferraris, psicologa e psicoterapeuta, che traccia per noi un bilancio del primo anno di pontificato a partire dalla parola-chiave della “tenerezza”. E per le donne nella Chiesa, da laica, ci confida un sogno: vedere le donne sacerdote. Nella società, “le donne hanno dimostrato di poter svolgere tutti i ruoli”.

 

Fin dall’inizio, la tenerezza è stata una delle parole-chiave per “narrare” il pontificato di Papa Francesco. Basti pensare soltanto alla benedizione silenziosa chiesta alla piazza subito dopo la sua elezione…

“Un anno fa, ha stupito il mondo il fatto che Papa Francesco abbia cambiato completamente stile: rispetto ai suoi predecessori, questo Papa ha uno stile più pastorale, si presenta come un buon parroco che conosce bene i suoi fedeli. Il registro della tenerezza, in particolare, riduce le distanze, perché va a toccare i sentimenti. E’ questo che riduce la distanza tra il Papa e le persone: molti rimangono impressionati dal rapporto molto intimo che Francesco riesce a instaurare con la gente, annullando quella distanza che un tempo c’era tra il Pontefice e i fedeli:  penso a Pio XII, alla sua figura ieratica, che ha caratteristiche esattamente opposte a quelle di Papa Francesco. Lui ha capovolto completamente prospettiva, già da quel ’buonasera’ con cui si è presentato alla piazza”.

 

Cosa comporta questa capacità?

“Con il suo ridurre le distanze, il Papa fa molto lo psicologo. Nei suoi discorsi attinge spesso all’esperienza quotidiana, come quando parla del rapporto tra genitori e figli o quando ha proposto la ‘misericordina’ come medicina… In questo modo, Papa Francesco va a toccare tematiche psicologiche, e così inevitabilmente crea vicinanza: le persone si sentono coinvolte nella loro intimità, nei loro sentimenti, nelle loro emozioni… Per di più, tutto questo è molto mediatico. Il Papa quando parla non pensa soltanto alle persone che sono in piazza, ma anche a chi guarda la televisione: usa un linguaggio efficace anche per gli spettatori”.

 

La tenerezza traspare anche dalla gestualità e dalla capacità di “comunicare” con il corpo…

“Certamente Papa Francesco è anche un Papa dei gesti: nel suo codice sono importanti le espressioni mimiche, il tono della voce, gli aspetti non verbali della comunicazione, come le pause, l’ironia, le battute, la capacità di calarsi in situazioni molto particolari… E’ un Papa che non ha paura di baciare, di accarezzare, che fa un uso sereno e consapevole del suo corpo: da un lato tutto ciò stupisce, all’altro crea una comunicazione molto diretta e una vicinanza anche fisica con le persone che incontra. A volte, di fronte a certi atteggiamenti, siamo portati a chiederci: ‘è così che deve comportarsi un papa?’. Poi il Papa lo fa, e spiazza… A volte tratta i fedeli in maniera molto semplice, e può portare i più ‘colti’ dal punto di vista spirituale a storcere il naso. Ma lo fa perché vuole raggiungere tutti. Vuole far parte della vita della gente, si ferma con la folla, cerca il contatto, quasi indugia”.

 

Alla tenerezza è associato lo sguardo femminile: Papa Francesco ha auspicato maggiore spazio per le donne nella Chiesa, anche nei luoghi “dove si decide”…

“La Chiesa ha sempre dato molto spazio alla riflessione sulla questione femminile, a cominciare dalla rilevanza assoluta della figura della Madonna. Il cambiamento vero sarebbe se finalmente la donna potesse entrare nella gerarchia ecclesiastica: con Papa Francesco, da laica, mi aspetto la donna sacerdote. Nei fatti, la Chiesa resta sempre maschilista, tutte le funzioni sono svolte dagli uomini: preti, vescovi, cardinali… E’ arrivato il momento per le donne, visto che Papa Francesco è un rivoluzionario e sta mettendo mano alla riforma della Curia. Dare accesso alle donne al sacerdozio ridurrebbe, inoltre, di molto il discorso sulla pedofilia: è un dato di fatto che le donne pedofile sono ben poche, e ciò darebbe maggiore sicurezza nella lotta contro questa piaga…Già Papa  Luciani diceva che la Chiesa è uomo e donna: nelle associazioni e nei movimenti ecclesiali ci sono donne che hanno posti da leader, e nella società ormai le donne hanno dimostrato di poter svolgere tutti i ruoli, compresi quello di capo di governo. Io vedrei benissimo donne sacerdote e donne vescovo: donne che rivestano ruoli di responsabilità, anche decisionali, in ambito ecclesiale”.

 

Intanto, Papa Francesco cita spesso le nonne e i loro preziosi consigli.

“Oggi c’è un gran bisogno dei nonni, non solo perché quando entrambi i genitori lavorano, sono loro che garantiscono una ‘supervisione’ ai figli.  La cultura giovanile ha separato le generazioni: per secoli, la cultura è stata la stessa per giovani e anziani, che trasmettevano la loro cultura ai giovani. Poi, dopo il ’68, anche per lo sfruttamento del mercato, i giovani hanno la loro musica, le loro letture, i loro luoghi d’incontro… Ma questa separazione non è molto produttiva: è vero che i giovani di oggi sono maestri nelle nuove tecnologie, e possono insegnare questa loro abilità ai nonni, ma è anche vero che i nonni possono trasmettere ai giovani qualcosa sulla vita, la via, la direzione in cui muoversi. Possono calmarli e spiegare loro che le cose si sistemano, quando c’è una turbolenza”. (M. Michela Nicolais)

 

 

 

 

5. PERIFERIE

“E’ il suo invito ad andare lontano incontro al mondo”

Jean-Louis Schlegel, filosofo e sociologo francese: “Per lui, arcivescovo di Buenos Aires, la giustapposizione di grandi ricchezze e di immensa povertà è una esperienza e una evidenza immediata. La periferia, allungata all’infinito, è il luogo simbolo della povertà materiale, culturale, affettiva… e al tempo stesso il simbolo aggressivo di tutti i cambiamenti e i contrasti di spazio/tempo post-moderno

L’invito di Papa Francesco ad uscire nelle periferie per andare incontro agli uomini e alle donne che le abitano, rientra in un grande disegno di riconciliazione tra il mondo e la Chiesa. E’ un invito pressante anche per i sacerdoti perché è convinto che ne guadagni la loro vita personale sotto il profilo della relazione.

 

Filosofo, sociologo delle religioni, traduttore. Jean-Louis Schlegel si dice particolarmente interessato alla ricomposizione del religioso e in particolare della Chiesa cattolica nella società contemporanea. L’invito di Papa Francesco ad uscire nelle periferie per andare incontro agli uomini e alle donne che le abitano, rientra in questo grande disegno di riconciliazione tra il mondo e la Chiesa.

 

Prof. Schlegel, intanto una sua prima impressione di questo primo anno di pontificato? Quale dimensione nuova Papa Francesco ha portato alla Chiesa ?

“Ho una duplice impressione: da una parte vedo che la Chiesa è governata ma noto  anche che è governata in modo diverso. Mi spiego: è governata da qualcuno che riflette, agisce e prende lui stesso le decisioni. Papa Francesco non si accontenta di ‘regnare’ lasciando ad altri il governo della Chiesa. Papa Francesco governa e per aiutarsi in questo compito ha creato un apposito Consiglio di cardinali, un’istanza pubblica, ufficialmente incaricata di fare le riforme. Si esce così dall’occulto, dagli intrighi, dalle speculazioni per un governo in piena trasparenza. Dunque il Papa governa, ma governa con uno stile diverso. Voglio dire che imprime uno stile particolare al suo governo che consiste innanzitutto nel prendersi personalmente i rischi delle proprie decisioni. Francesco non ha atteso di mettere in moto le riforme strutturali (Curia, finanze, ecc) per cambiare la Chiesa. E’ lui stesso la riforma. Il cambio di stile è straordinario – a partire dalla sua abitazione, il vestito, i rapporti ‘fisici’ con le persone (anche con le donne, per esempio, che abbraccia senza esitare).  Compie in questo senso anche gesti simbolici: non si limita a invitare gli altri ad andare incontro al povero e ai piccoli. Ci va lui di persona. Basti pensare a Lampedusa, all’incontro con i disabili, ai bambini della prima comunione, alla lavanda dei piedi il Giovedì Santo … In altre parole, paga di persona e avvia la riforma della Chiesa senza attendere il completamento dei lavori del suo Consiglio cardinalizio. Si ha l’impressione di essere ‘in riforma’ da un anno”.

 

Lei parlava dell’invito del Papa di andare incontro ai piccoli, alle periferie. Quali sono le periferie moderne dove appunto immergersi?

“Il Papa parla agli uomini e alle donne di questo tempo e le persone oggi  vivono prevalentemente nelle città e nelle loro periferie. In Francia il termine ‘péripherie’ rimanda alle periferie più lontane, ai bordi più esterni dei quartieri periferici. Non tutte le periferie però sono povere. A Parigi e nella regione parigina, per esempio, parte della periferia è molto ricca. Non credo che il Papa si riferisca a queste periferie (anche se c’è una povertà spirituale). Credo piuttosto che il Papa parli delle periferie sperdute e lontane dove non ci sono case ma torri, ‘lunghi casermoni’ abitati da moltissimi giovani e dove la disoccupazione è alta. Sono i luoghi dove vivono gli ultimi arrivati, gli immigrati provenienti da paesi poveri e i contadini poveri attratti dalla città e dalle sue promesse spesso ingannevoli…”.

 

Quanto può aver influito la sua provenienza da Buenos Aires?

“Per lui, arcivescovo di Buenos Aires, la giustapposizione di grandi ricchezze e di immensa povertà, come in tutte le megalopoli del Sud, è una esperienza e una evidenza immediata. La periferia, allungata all’infinito, è il luogo simbolo della povertà materiale, culturale, affettiva … e al tempo stesso il simbolo aggressivo di tutti i cambiamenti e i contrasti di spazio/tempo post-moderno”.

 

E poi, come diceva, esiste la povertà spirituale?

“Il Papa ha certamente in testa anche le “periferie simboliche” dell’esilio interno, della solitudine, del dolore di vivere, della violenza, senza dimenticare gli uomini lontani dalla Chiesa”.

 

Perché parlare di periferie proprio adesso?

“Perché bisogna uscire. Uscire e andare lontano. Ma uscire per andare lontano dove? Uscire dalla ‘sacrestia’, dai ‘templi’, dalle mura della parrocchia identificata come ‘cattolica’. Sembra che Francesco suggerisca che questo andare fuori faccia bene ai sacerdoti, non solo spiritualmente, ma anche a livello psicologico: si tratta per loro di uscire dallo spazio ecclesiale per cambiare aria. A volte ho anche avuto la sensazione che Benedetto abbia sottolineato la liturgia, la conversione interiore, lo spazio della Chiesa e la vita spirituale. Per Francesco era troppo ristretto. Lui sprona ad andare incontro agli esseri umani, anche ai non cristiani, addirittura spingendosi fuori dall’etica cattolica, non solo a causa dell’evangelizzazione o per ‘convertire’, ma per vivere una esperienza personale. La ragione che ha dato per spiegare la scelta di stare a Santa Marta, non è la povertà o la virtù (neanche per evitare il Palazzo Vaticano). No, lui ha bisogno di scambiare parole con quelli che si trovano al suo tavolo e si trovano lì per caso e non per etichetta vaticana. E, infine, penso, che Papa Francesco ricordi ai vescovi, ai sacerdoti e ai laici che non è sufficiente servire il corpo della Chiesa come dei ‘buoni funzionari’. Il Vangelo esige di più! ‘Magis’, come diceva Sant’Ignazio, fondatore dei Gesuiti. Cristo chiama i suoi discepoli a fare ‘di più’”. (Maria Chiara Biagioni)

 

 

 

6. Cultura dell’incontro

“La risorsa principale è riconoscere i valori reciproci”

Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma: “Ereditiamo dalla modernità una progressiva distinzione nel rapporto tra la politica e la religione. E quindi tra credenti e non credenti. Impostare il problema in termini di incontro e collaborazione significa partire da una visione positiva della modernità, riconoscendo che il destino non è segnato dal nichilismo”

 

“Dobbiamo saperci incontrare. Dobbiamo edificare, creare, costruire una cultura dell’incontro. Uscire a incontrarci”. È la richiesta espressa da Papa Francesco in occasione dell’ultima festa di san Gaetano in Argentina. Più di un appello, quello rivolto al popolo in una delle ricorrenze preferite dal Bergoglio arcivescovo di Buenos Aires, per indicare ancora una volta la strada da percorrere: aprire le porte, varcare l’uscio e scendere in strada per incontrare le persone e dialogare con loro. Mettendo al centro, sempre e ovunque, gli ultimi: “Il Papa ama tutti, ricchi e poveri; ma il Papa ha il dovere, in nome di Cristo – scrive nella ‘Evangelii Gaudium’ -, di ricordare al ricco che deve aiutare il povero, rispettarlo, promuoverlo”. Della Chiesa aperta e inclusiva guidata dall’annuncio e dalla testimonianza, che nella “cultura dell’incontro” trova la chiave di volta per costruire un mondo più giusto, abbiamo parlato con lo storico del pensiero politico Giuseppe Vacca, presidente della Fondazione Istituto Gramsci di Roma.

 

La “scelta per i poveri” non è riflessione astratta ma “promozione di giustizia” che si realizza nell’incontro. Chi sono i poveri di oggi?

“I poveri non sono soltanto quella parte di umanità che porta il dono del riscatto. Sono anche un punto di vista sulla realtà. E questa, per me che ho una formazione e una cultura da non credente, è una scelta che condivido: guardare il mondo dalla parte degli ultimi. È un po’ la prosecuzione dell’idea del Machiavelli: dai bordi si capisce meglio l’insieme. E questa è anche la sostanza del messaggio del Papa. Non sta soltanto affermando valori fondamentali della Dottrina sociale della Chiesa cattolica o del cristianesimo, sta dicendo anche che se non si è capaci di guardare il mondo con tutte le sue contraddizioni e possibilità non lo si può capire davvero. Da non credente, condivido pienamente”.

 

Cultura dell’incontro è anche saper accogliere le persone che migrano da Paesi lontani…

“È una questione non soltanto di equità, bontà e carità ma di intelligenza del mondo. Non è concepibile pensare le nazionalità come ce le ha consegnate la storia della modernità europea: unità di lingua, cultura, territorio e sovranità determinata. Stiamo vivendo un passaggio in cui il multi-culturalismo, la multi-etnicità e la multi-religiosità saranno i confini di una nuova definizione in corso d’opera di quello che chiamiamo popolo. E allora come si fa a non vivere questa fase con apertura, certo trepidante e responsabile, guardando a chi questa storia l’ha già vissuta prima come l’America Latina”.

 

Anche la fede nasce da un “incontro” personale con Cristo. Come può esserci un riconoscimento reciproco di valori tra credenti e non credenti?

“Il percorso è iniziato a partire dal Concilio e da Giovanni XXIII. Ora però ci troviamo alla prova dei fatti perché in ultima analisi, dal punto di vista della possibile e perfezionabile unità del genere umano, ciò che ereditiamo dalla modernità è una progressiva distinzione nel rapporto tra la politica e la religione. E quindi tra credenti e non credenti. Impostare il problema in termini di incontro e collaborazione significa allora partire da una visione positiva della modernità, riconoscendo che il destino non è segnato dal nichilismo. A me, che non sono figlio di una cultura religiosa ma della lezione di Palmiro Togliatti, sembra evidente che la risorsa principale sia riconoscere i valori reciproci”.

 

Le disuguaglianze sociali sono di fronte agli occhi di tutti. Bisogna avere coraggio per credere di poter modificare le cose…

“I tempi non cambiano mai da soli, siamo noi che possiamo trasformarli in meglio o in peggio. E questo dipende dalle idee e dalla speranza che abbiamo nella testa e nel cuore. La speranza è la categoria che apre all’unità tra credenti e non credenti e all’idea di un tempo aperto al futuro”.

 

Dialogo e incontro per superare i conflitti e cercare la pace. C’è speranza anche per una società segnata dalla contrapposizione?

“La divisione è più in superficie che nella sostanza. Pensiamo ad un tema sensibile al Papa, come quello del ruolo delle donne. Quando in uno dei momenti di maggiore lacerazione regressiva e depressiva del Paese nasce per iniziativa di un piccolo gruppo di donne un movimento che, lasciando alle spalle il vecchio femminismo, rivendica la dignità della donna e tenta di ricucire l’unità politica, culturale e religiosa della nazione portando in centinaia di piazze italiane un milione di persone, significa che sotto la corteccia di una politica impoverita e ridotta a guerre senza principi… il Paese è vivo e avverte bisogni di altra natura. E anche la Chiesa lo percepisce, basti pensare alla folla che si riversa ogni settimana in piazza San Pietro. Osservo tutto ciò con interesse morale e culturale, lo stesso che mi ha portato la sera in cui è morto Papa Giovanni ad andare in piazza e scoprire che la metà dei presenti erano miei compagni del Pci”.

 

Quindi cambiando la Chiesa si può cambiare il mondo…

“Non ho alcuna titolarità per chiedere questo alla Chiesa perché non ne faccio parte se non, potremmo dire, come popolo di Dio. Ma non posso che stare a guardare con entusiasmo”. (Riccardo Benotti)

 

da NUOVA SCINTILLA 10 del 9 marzo 2014