La domanda sul futuro della parrocchia è inevitabile. L’istituzione parrocchiale vive una forte situazione di crisi. Le chiese si svuotano; sono drasticamente diminuiti non solo i preti, ma anche i fedeli; diventa sempre più complesso gestire le strutture parrocchiali; il linguaggio della comunicazione della fede fatica a raggiungere le persone, soprattutto i giovani. Siamo chiamati a prendere atto della “fine della civiltà parrocchiale” (Christoph Theobald), cioè dell’identificazione di un territorio con il campanile e di questo con il parroco. La fine della “civiltà parrocchiale” è anche la fine del modello parrocchia? Molti lo pensano. Papa Francesco sostiene che «la parrocchia non è una struttura caduca» e che può continuare «a essere la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie» (EG 28). C’è una ragione teologica che fonda la “necessità della parrocchia”. La parrocchia è la ‘casa di tutti’ che garantisce l’accesso al vangelo senza condizioni, il diritto di appartenenza senza elitarismi e senza preclusioni settarie. Essa è ‘il privilegio dei poveri’. Lo stesso papa Francesco, però, pone una condizione: che essa operi una coraggiosa “conversione missionaria”. «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa…» (EG 27). In questa conversione sono due le coordinate irrinunciabili: rendere disponibile a tutti la grazia del vangelo senza porre impedimenti (la chiesa non è una dogana), manifestare la prossimità di Dio nei riguardi di tutti, soprattutto per chi è più colpito dalla vita. Ci possiamo chiedere se la parrocchia è in grado di passare da un’agenzia di servizi religiosi a una comunità missionaria. È sufficiente che essa torni a essere quello che era all’inizio: una “ecclesia paroikusa”. Il cammino da fare, anche grazie alla spogliazione in atto, è quello che essa torni a essere una minoranza evangelica in un determinato contesto culturale e territoriale. È utile sostituire il termine “parrocchia missionaria” con quello di “comunità ecclesiale generativa”. Il termine “generativa” evita un rischio: quello di pensare che, preso atto della fine di un modello, si tratti di elaborarne un altro. Generatività non implica un nuovo modello di parrocchia, ma l’attitudine pastorale a promuovere vita, anche solo qualche piccolo germe. Ci sta davanti un lungo tempo nel quale il modello precedente si sgretolerà ulteriormente e non avremo un modello sicuro di presenza del cristianesimo nei territori antropologici e geografici. Rinunciare a nuovi modelli e generare vita nella fragilità e nella debolezza è la via per la rigenerazione del cristianesimo. Genera vita ricentrare la comunità sull’ascolto e la condivisione della Parola; riqualificare in senso evangelico le relazioni interne alla comunità; allargare i ministeri battesimali, ripensando il ministero del presbitero; creare spazio e dare fiducia ai giovani. L’elenco può continuare: tutto ciò che nutre la fede elementare delle persone e la fede discepolare è missionario.
Enzo Biemmi