Sguardo pastorale

Quel miracolo che è la Chiesa

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“Vi erano là sei anfore di pietra…Gesù disse loro: «Riempitele d’acqua» …disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Le parole di Gesù nel vangelo delle nozze di Cana mi hanno accompagnato per tutta la celebrazione dell’ordinazione episcopale del nostro nuovo vescovo Giampaolo Dianin, e mi hanno aiutato a mettermi in ascolto delle parole e dei gesti che venivano compiuti e ad intravedere la grandezza del segno che ci veniva dato.

Per noi avere ancora un vescovo è un dono straordinario. Ci è capitato di vivere nell’incertezza che questo sarebbe potuto non succedere: la diocesi è modesta per le sue dimensioni e il clero è diminuito. Avremmo potuto essere uniti, in persona episcopi, ad una diocesi viciniore; avremmo continuato ad essere Chiesa, un Pastore ci avrebbe guidati, ma avremmo sicuramente sofferto un cambiamento molto forte, perché il rapporto con il vescovo è così prossimo per noi che ci sarebbe mancata la quotidianità di una relazione.

Nella solennità della celebrazione vissuta domenica scorsa, nell’ampia Cattedrale di Padova, ho avuto la netta sensazione che proprio per noi Cristo rinnovasse il dono del vino nuovo.

Il vescovo Cipolla nella sua omelia ha ricordato a don Giampaolo che facciamo quello possiamo, di fronte a quello che Cristo ci dice, quelle sei anfore piene d’acqua sono le nostre fragili esistenze ma: “Sappiamo che si tratta di partecipare, oggi, ad un miracolo: trasformiamo non acqua in vino, ma un uomo, già presbitero, già diacono, già cristiano in vescovo”. Trasformato in che cosa, quindi? Nel segno vivente di Cristo sposo della sua Chiesa. Questo è il cuore dell’identità di un vescovo e l’essenza della missione episcopale. E un matrimonio non si fa mai da soli, ma in due. È così che vediamo trasformata nuovamente anche la nostra realtà ecclesiale: nuovamente siamo chiamati a lasciarci amare! Lo sposo è alla porta e bussa. Apriamogli e andiamogli incontro.

Non si diventa, infatti, vescovi se non per una diocesi, cioè per essere Pastori di un popolo che crede in Cristo e ha bisogno di essere guidato saggiamente. Non si può essere soli nella vocazione ad essere Chiesa. Come Chiesa diocesana abbiamo bisogno della presenza sacramentale del segno che ci dà unità, nella persona di un vescovo, ma a noi è chiesto di accoglierlo “come un padre da amare e un maestro da ascoltare, compiendo con cuore sincero la volontà di Cristo nella vita di ogni giorno”. La base dell’amore sponsale è la reciprocità, così la vera fonte dell’unità è l’abbandono reciprocoad una volontà più grande. Di questo dobbiamo rendercene conto.

Non siamo di fronte ad una mera formalità, come se fosse un burocratico avvicendamento di due persone alla guida di un ente, di un governo, di uno stato, considerando pure che anche per le cariche pubbliche sono richieste delle qualità umane e morali spiccate. Siamo di fronte ad una promessa che si rinnova, ad un dono per niente scontato, come non lo sono la fede e i sacramenti o l’amore di una persona. È facile lamentarsi della solitudine perché nessuno ci ama o a causa dei nostri fallimenti, ma quanto ci può aprire il cuore sapere che c’è chi ci ama e continua a farlo? Lasciarci amare è difficile ma che alternativa abbiamo per la nostra salvezza?

Don Simone Zocca

Delegato della Pastorale