Riflettendo sul vangelo - Quarta domenica di Pasqua - Anno B

Il pastore e i chiamati

Vangelo di Giovanni 10,11-18

Gv10,11-18
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Oggi, quarta domenica di Pasqua è la domenica del “buon Pastore”. Quella del pastore è un’icona amatissima da grandi e piccoli; nelle tombe dei primi cristiani era una delle prime icone: il pastore che con sicurezza porta sulle spalle la sua pecorella, anche oltre il baratro della morte.

Un pastore che si prende cura delle sue pecore è anche una realtà, diciamo, abituale per gli ebrei, popolo dedito alla pastorizia ed esperto nel riconoscere il proprio gregge, nell’accudirlo con attenzione.

Oggi è anche la domenica in cui tutta la Chiesa celebra la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni; sappiamo che l’idea di vocazione è stata legata a doppio nodo alla scelta sacerdotale e di consacrazione religiosa, anche se ora si è allargata la visuale per assumere un’idea più ampia di vocazione e più in sintonia con la visione cristiana della vita.

Nel Vangelo di oggi (Gv 10, 11-18) Gesù dichiara: “Io sono il buon pastore” (v. 11), letteralmente sarebbe “il pastore bello”. E’ un’immagine molto suggestiva, perché il pastore vive solo con il suo gregge; provvede alle pecore perché possano pascolare, offre loro il necessario nutrimento e le accudisce con amore, le protegge dalle incursioni dei lupi e va in cerca delle pecorelle smarrite per ricondurle all’ovile. Si può dire che la bontà e la bellezza di questo pastore che è Gesù derivano proprio dall’atteggiamento che caratterizza la sua relazione con le pecore. E’ Lui il Pastore autentico al quale importa delle pecore che gli sono affidate.

Dire a qualcuno “tu mi importi”, significa dirgli “ti amo”. Tu sei importante per me! E per te sono disposto a dare la vita. Gesù, nel breve brano del vangelo di questa domenica, il dare la vita lo ripete per ben cinque volte.

Il Bel Pastore pone subito una distinzione tra coloro che conducono il gregge al pascolo. Ci sono i mercenari, cioè quanti lo fanno di mestiere, interessati soltanto allo stipendio, dunque al proprio interesse; a loro non importa delle pecore e se un lupo le assalta le abbandona alla loro sorte. Il mercenario “che non è pastore e al quale le pecore non appartengono”  non le sente sue e quindi non è in sintonia con loro. “Vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde” (v. 12). Tutto questo, conclude l’evangelista Giovanni, “perché è mercenario e non gli importa delle pecore”. Il mercenario vede, pensa a se stesso, abbandona e il gregge si disperde. Io non sono così, dice Gesù: Io sono il buon pastore, che ha cura delle pecore, le guida ai pascoli migliori, le protegge e le difende sino a dare la vita per loro.

Dal testo del Vangelo di oggi comprendiamo esattamente proprio questo. Dio ci ama personalmente. Nelle parole di Gesù: “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”, c’è una reciproca comunione d’amore e di conoscenza. Ricorda sant’Agostino “Dio ama ciascuno come fosse l’unico”. Dio chiama ogni singolo individuo a essere “figlio nel Figlio”, per entrare in quello stupendo rapporto che intercorre tra il Padre e il Figlio Unigenito in seno alla Trinità. Questo rapporto viene espresso proprio da Gesù quando dice: “come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (v. 15).

Chi, smarrito, dalle tante difficoltà o traversie della vita si sente abbandonato, nella sua desolazione scopre che il Pastore buono delle pecore lo viene a cercare nella sua angoscia per continuare con lui il cammino verso la Patria.

Sulla tomba di un cristiano della fine del II secolo, un certo Abercio, si legge questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”.

Sì, Gesù è questo pastore santo, buono e bello, con occhi grandi, che raggiungono tutti, anche noi oggi. E da questi occhi noi ci sentiamo protetti e guidati.

 

Don Danilo Marin