Storia

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– Sintesi tratta da “STORIA RELIGIOSA DEL VENETO – DIOCESI DI CHIOGGIA” di mons. Dino De Antoni e Sergio Perini, Padova 1992

L’età medievale

Le origini della diocesi

La fondazione della diocesi di Chioggia risale all’epoca della traslazione dall’antica sede vescovile di Malamocco, avvenuta, presumibilmente, tra il secondo e il terzo decennio del secolo XII a seguito della distruzione di quell’antico insediamento sotto l’incalzare di una serie di calamità naturali, fra cui la tradizione ha posto l’accento su un impetuoso sconvolgimento di imprecisata natura che avrebbe irreversibilmente pregiudicato le condizioni di abitabilità. Appare comunque certo che la tragica emergenza insorta con la scomparsa dell’illustre località s’inserì in un quadro alquanto fosco, funestato da luttuosi avvenimenti di vasta portata, che incisero profondamente il paesaggio geo-urbanistico dell’area lagunare.

Ambiente geografico e contesto economico-sociale

Il territorio della diocesi di Chioggia coincideva con quello attribuito alla sede metamaucense, la cui origine, dimostratasi insussistente l’ipotesi di una genesi eliana, vien fatta risalire intorno al 640, quando l’acuirsi delle pressioni politiche del re longobardo Rotari frantumò l’unità della diocesi patavina. Al pari dei predecessori di Malamocco, suffraganei del metropolita di Grado, il presule di Chioggia estendeva la sua giurisdizione dalla punta settentrionale di Malamocco sino all’estremo lembo meridionale del Dogado, comprendendovi i castri di Cavarzere e Loreo, nonchè la Torre delle Bebbe. Di conseguenza, la diocesi chioggiotta risultò formata, fin dalle sue origini, da due ambiti eterogenei e diversificati per costituzione fisica, composizione sociale e struttura economica. Posto a ridosso di un entroterra solcato dai rami terminali dei più importanti corsi d’acqua della penisola – Brenta, Adige, Po – il paesaggio lagunare assumeva la fisionomia tipica delle aree di transizione dai contorni fluttuanti, soggetti ad incessante metamorfosi, le cui leggi i Venetici avevano imparato a rispettare, sfruttandole ai fini del proprio sostentamento. Vallicoltura, industria del sale, agricoltura intensiva, commercio rappresentarono le principaliattività economiche delle popolazioni insediate tra il cordone insulare, che si ergeva a guisa di barriera naturale contro gli assalti del mare, e l’articolato estuario padano. Era un mondo che fondava la propria sopravvivenza su delicati equilibri, generati dalla mutua induzione di fenomeni naturali e reazioni umane, sapientemente dosate mettendo a frutto insegnamenti sedimentatisi attraverso una plurisecolare esperienza. Barene, dune sabbiose, paludi, canali, aree depressionarie, canneti e boscaglie concorrevano alla formazione di un paesaggio all’apparenza ostile, insidioso, povero di risorse, ma che, grazie all’indefesso impegno di decine di generazioni, si tradusse in base primaria della potenza del Dogado.

Dal X al XII secolo il panorama lagunare subì un sensibile ridimensionamento, divenendo uno dei settori vitali della potenza economica veneziana in virtù dello straordinario sviluppo delle strutture estrattive del sale: i fondamenti.

Tra le componenti principali della società clodiense sviluppatasi tra i secoli XII e il XIV possibile distinguere una corsorteria egemone, che era riuscita a concentrare nelle proprie mani una discreta ricchezza immobiliare, un ampio strato di piccoli coltivatori diretti che integravano i magri profitti delle loro proprietà con prestazioni su fondi altrui, un ceto artigianale, nel quale più nutrita si palesava la rappresentanza forestiera, ed infine una base di lavoratori dipendenti privi di risorse patrimoniali.

Affine alla fisionomia sociale di Chioggia Maggiore appariva la vicina borgata di Chioggia Minore, che travolta nel vortice del conflitto veneto-genovese del 1379, ritrovando faticosamente una propria identità solo dopo tre secoli. Collegata alla consorella da un lungo ponte gettato sulla laguna del Lusenzo – anch’esso distrutto dai Genovesi – non riuscì mai ad emanciparsi dalla subordinazione politico-amministrativa al centro gastaldiale, pur conseguendo una posizione non marginale nella vita economica del distretto clodiense.

Il secondo àmbito della diocesi era rappresentato dai villaggi del contado, che facevano capo a Cavarzere e Loreo. Allo stato attuale della documentazione nonrisulta possibile tratteggiare i lineamenti di quelle realtà socio-culturali, anche se il sistema economico doveva configurarsi composito, essendo imperniato su due attività eterogenee come l’agricoltura e la pesca nelle valli. L’area agraria padano-atesina conservò, comunque, la sua fisionomia socio-religiosa sino al secolo XVII, quando fu investita da una serie di trasformazioni ambientali che ne alterarono anche il tessuto sociale, favorendo una capillare colonizzazione.

Mondo ecclesiastico e potere civile nel tardo Medioevo

Secondo la tradizione storiografica, dopo il trasferimento da Malamocco, occuparono la cattedra episcopale di Chioggia le seguenti personalità, di cui sono rimaste sporadiche testimonianze: Enrico Grancarolo (1110-?), Stefano Badoer, Domenico Guillari, Felice, Giovanni Falier, Marino Ruibolo (?-1180), Araldo Bianco, Domenico, Felice II, Matteo, Uberto, Simone Moro, Stefano Besono, Percivallo, Leonardo, Enrico francescano, Roberto agostiniano (1302-?), Ottonello minore osservante (1314-21), Andrea Dotto (1322-42), Michele domenicano (1344-46), Pietro domenicano (1346-48), Benedetto (1348-62), Angelo Canopeo (o Cavopei) (1362- 1369), Giovanni da Camino dei Servi di Maria (1369-75), Nicolò Foscarini (1375-87), Silvestro (1387-1400), Paolo di Giovanni (1401-10), Cristoforo Zeno (1410-20), Pietro Schiena minore osservante (1411-14), Benedetto Manfredi chioggiotto (1414-21), Pasqualino Centoferri chioggiotto agostiniano (1421-57), Nicolò dalle Croci (1457-63), Nicolò Inversi dei Servi di Maria (1463-80), Silvestro Daziari (1480-87).

Se nei primi due secoli della diocesi prevalsero presuli estratti probabilmente dal clero pievanale in conformità al peculiare costume radicato nell’àmbito lagunare, nei secoli XIV e XV sulla cattedra clodiense si alternarono personaggi provenienti in prevalenza dagli ordini mendicanti, e pertanto privi di quell’esperienza di cura d’anime e organizzazione parrocchiale sulla quale i loro predecessori avevano plasmato l’azione pastorale. Tra i prelati del tardo medioevo spiccarono le personalità del Centoferri e del Venier, il primo per l’audace opera di moralizzazione dei costumi del clero, grazie alla quale neutralizzò ambigui rapporti con il potere civile, inaugurando nel contempo la riforma dell’apparato ecclesiastico, mentre il secondo, pur continuando sul solco tracciato dal predecessore, rintuzzò le velleità conservatrici di un’indocile frangia del clero e impostò la sua opera pastorale sulla codificazione delle norme di condotta non solo per gli ecclesiastici, ma anche per il laicato, trascinato in una preoccupante involuzione morale.

Nel corso del secolo XIV andò dileguandosi la presenza di enti religiosi veneziani sul territorio clodiense, a motivo dell’inesorabile decadenza delle saline, che, rivelandosi scarsamente remunerative, furono progressivamente vendute a privati. Il monastero più attivo continuò a mostrarsi San Nicolò del Lido, che percepiva i redditi da una ventina di saline e un discreto numero di vigneti; ma dal 1421, sotto l’imperversare della recessione, cominciò a concedere globalmente in affitto, a tem-po determinato, le sue proprietà, ricavando un canone complessivo di 30 ducati, di gran lunga inferiore al reddito di un secolo prima: era il preludio per la vendita di beni immobiliari, che la nuova parabola economica stava condannando all’emarginazione.

Dopo la guerra veneto-genovese, sull’onda del generale rinnovamento urbanistico del centro cittadino caldeggiato dalle autorità civili, si pose mano al rifacimento di alcuni edifici sacri distrutti o gravemente danneggiati durante le vicissitudini belliche. Rimandata ad un futuro imprecisato la ricostruzione della Chioggia Minore in ottemperanza a due decreti senatoriali che inibirono per un quindicennio l’edificazione di abitazioni fuori del perimetro urbano clodiense, la facoltosa famiglia degli Orsi Carnelli commissionò l’erezione di una cappella, intitolata ai santi Martino, Matteo e Antonio abate, affinchè i profughi di Clugia Parva potessero raccogliersi in un dignitoso tempio e mantener desta l’originaria identità socio-culturale. L’amministrazione del patrimonio dell’erigenda chiesa fu affidata ai due, procuratori del duomo; il cappellano oltre al compito di celebrare quotidianamente doveva suonare l’organo e cantare in cattedrale, integrando tali attività con lezioni di canto fermo ai chierici. In un secondo tempo si optò per la separazione delle mansioni di organista da quelle di maestro di canto, assegnando al primo 20 ducati all’anno e al secondo 12.

Il campanile del duomo, crollato nel 1347 e riedificato all’indomani della pestilenza grazie anche ad oblazioni da parte di laici facoltosi, fu uno dei monumenti che ebbero meno sofferto per le vicende belliche. Il piccolo tempio intitolato ai Santi apostoli Pietro e Paolo fu edificato in esecuzione delle ultime volontà del canonico Pietro Mazzagallo, il quale ne aveva precisato l’ubicazione su un terreno del Comune posto tra il ponte dei Corteleri e il tratto posteriore all’abside (cuva) della cattedrale. Era prevista anche la costruzione di una casa attigua, destinata ad abitazione per il cappellano, il quale, per il quotidiano servizio liturgico in suffragio del benefattore, sarebbe stato sovvenzionato mediante gli interessi di un fondo realizzato con la vendita di una parte dell’eredità. La chiesa, denominata dal popolo San Pieretto, nel 1432 appariva ultimata. Alterna si delineò invece la ricostruzione dei monasteri e chiese extraurbani: alcuni, infatti, più non risorsero, mentre altri furono ultimati nel corso del secolo XV.

Irreparabilmente distrutti apparivano quelli sparsi nell’ambito del distretto clodiense: San Francesco fuori mura, San Giovanni Battista dei Camaldolesi di Calmaggiore, San Michele e Santissima Trinità di Brondolo, San Giorgio di Fosson, San Michele in Adige, Santa Caterina del Deserto delle Cistercensi. Pertanto, sull’immagine dell’edilizia sacra si riverberava emblematicamente lo stato economico-sociale della cittadina lagunare e del suo entroterra, duramente provati dalla bufera bellica, ma anche dalla sfavorevole congiuntura che attanagliava la produzione salinara, originario fulcro dell’economia locale di cui, sullo scorcio del Quattrocento, non si intravedevano valide alternative. La ricostruzione del tessuto sociale, dilaniato dalle perdite umane e dall’esodo di varie famiglie, avanzò lentamente tra svariate difficoltà, come pure la ricostruzione dei luoghi di culto travolti nel vortice della guerra.

Dal tardo ‘400 all’attuazione del concilio di Trento

Caratteri generali del contesto religioso e spunti di riforma cattolica

I fermenti e le esigenze di rinnovamento religioso manifestatesi alla fine del ‘400 nella vicina Venezia, trovarono anche a Chioggia una risposta positiva, capace di coinvolgere le forze religiose esistenti. Il Cinquecento si era aperto con l’apparizione della Vergine sul lido di Sottomarina (1508), che, se da un lato sottolineava un quadro di crisi dei valori etici e religiosi, segnò anche un movimento di rinascita spirituale. Non mancarono i segni di frizione tra la città e la Sede apostolica a causa della cattura da parte di certo capitano Pietro Pagan di due barche dello stato pontificio cariche di ferramenta, episodio che costò alla città un interdetto negli anni 1514-17. Ma fu comunque l’apparizione miracolosa l’evento che caratterizzò religiosamente i primi decenni del secolo; anche se il caso è notevolmente affine a quei miracoli popolari di Madonne piangenti per i quali Giovanni Miccoli ha annotato che trovarono luogo tra l’ultimo ‘400 e i primi del ‘500, come manifestazioni tipiche di tutti i grandi momenti di tensione e di attesa, esso ebbe una vasta eco, di cui si trova più che una traccia nell’ambiente veneziano, tramite il Snudo, e nel padovano con il Ruzante. In effetti il miracolo della Madonna della Navicella s’innestò e si affiancò ad una forte tensione religiosa che caratterizzò tutto l’episcopato di Bernardino Venier (1487-1535).

Egli aveva celebrato già nel 1490 un sinodo il cui possibile modello poteva essere il Synodicon di san Lorenzo Giustiniani del 1438. Lo ripropose di nuovo nel 1510. In esso insistette sulle motivazioni ideali della vita ecclesiale con una normativa che regolamentava fin nei dettagli il comportamento clericale.

Gli anni del concilio di Trento

In questo ambiente socio-culturale iniziò la sua opera di riforma il vescovo Giacomo Nacchianti (1544- 1568), domenicano. Era entrato nel 1518 nel famoso convento di San Marco a Firenze, protetto da Paolo III, nonostante il suo conflitto con l’Ordine, da cui era stato isolato, ed era stato nominato vescovo nella città lagunare, perché considerato tra gli “uomini di cervello” per il concilio.

(…) I suoi interventi furono più interessanti ascoltati al Concilio, anche perché era considerato uno dei più noti esegeti del suo tempo accanto a Sisto Senese.

Terminato il concilio, occorreva mettere in pratica i decreti. Nacchianti, al ritorno da Trento, dopo il terzo periodo, radunò i preti per un nuovo sinodo nel 1564. Il primo lo aveva celebrato nel 1545. Nel nuovo sinodo indicò dapprima l’importanza del concilio, facendone leggere la bolla di conferma papale e chiedendo a tutti i presenti atto di obbedienza al papa. Poi passò a presentare i decreti sulla residenza nella duplice redazione di Paolo III e di Pio IV.

Anche i successori di Nacchianti, Francesco Pisani (1569-72), Girolamo Negri (1572-79), Marco Medici (1579-83) e Gabriele Fiamma (1584-85) si adoperarono per continuare l’opera di riforma della diocesi.

Il visitatore apostolico

Nel 1585 fu nominato vescovo di Chioggia da Sisto V il francescano conventuale Massimo Beniamino (1586-1601). Qui ebbe qualche iniziale difficoltà con il clero e la popolazione, occultamente sostenuti dalle autorità venete, quando egli tentò, previa autorizzazione romana, di ridurre il numero dei canonicati così da aumentare le rendite dei beneficiari superstiti. L’insuccesso di questa impopolare iniziativa lo convinse a mantenersi per il futuro nei limiti che la repubblica consentiva al ministero religioso, rinunciando ad ogni iniziativa sul terreno giurisdizionale.

Il primo sinodo del ‘600 si deve al vescovo Lorenzo Prezzato, che lo celebrò nel 1603, dopo aver visitata la diocesi. Fu il primo dato alle stampe e molto curato nella veste tipografica.

L’opera di riforma dei vescovi attraverso le visite pastorali

La successione delle visite pastorali clodiensi inizia con il vescovo Nacchianti, che visitò la diocesi una prima volta nel 1546, durante una pausa del concilio tridentino. Una seconda visita compì nel 1554, una terza nel 1564, una quarta per mezzo del suo arcidiacono, nel 1568, ma le notizie relative a tali visite sono pochissime.

Nel 1570 anche il vescovo Pisani sollecitò la visita alla diocesi, che percorse in breve spazio di tempo; ma non ne è rimasta alcuna testimonianza.

Il vescovo Medici aveva in programma la visita, ma dovette distogliersi dal proposito per la notizia dell’imminente visita apostolica.

La norma tridentina venne invece scrupolosamente osservata da Gabriele Fiamma nel 1584-85, dal vescovo Massimo Beniamino, che visitò la diocesi quattro volte.

Dal ‘600 alla caduta della Serenissima

Evoluzione demografica e caratteri economico-sociali della diocesi

Chioggia, dal tardo ‘500 al tramonto della repubblica marciana, fu interessata da una sostanziale espansione demografica, grazie alla quale raddoppiò la sua popolazione, giungendo, dalle 8339 anime calcolate nel gennaio 1592, alle 18870 del 1797.

La distribuzione della cura d’anime

Il progresso demografico non mancò di ripercuotersi sull’organizzazione della cura animorum, come si evince dalle elevazioni a parrocchie autonome di antichi oratori, avvenute con crescente frequenza dagli ultimi decenni del Seicento.

Mentre al tramonto del secolo XVI sul territorio diocesano, esteso per una cinquantina di miglia dal limite settentrionale si Santa Maria Elisabetta fino alla punta di Goro, erano officiate 15 chiese oltre ad una dozzina in Chioggia, alle fine del settecento, quando si potè vagliare il bilancio di più di un secolo di aggiustamenti della distribuzione della cura d’anime, si annoverarono 25 parrocchie così ripartite tra le cinque foranie arcipetrali.

  • Cattedrale: Cavanella d’Adige, Canal di Valle, Ca’ Bianca.
  • Malamocco
  • Pellestrina: San Pietro in Volta, Portosecco;
  • Cavarzere: Rottanova, Pettorazza, Parafava, Pettorazza Grimani, Foresto, Fasana.
  • Loreo: Contarina, Mazzorno, Ca’ Cappello, Ca’ Venier, Villaregia, Donzella, Rosolina,  Donada, Bagliona, Bocca delle Tolle.

La suddivisione del centro urbano di Chioggia in tre rioni vicariali si mantenne pressoché invariata sino alla riforma del 1964. Le chiese sussidiari di San Giacomo e Sant’Andrea non sussistevano per se stesse, ma come dipendenti della cattedrale – originariamente denominata pieve di Santa Maria – e, pertanto, i rispettivi curati non esercitavano i diritti parrocchiali, bensì fungevano, in base ad un mandato annuale, da semplici delegati del Capitolo, esclusivo depositario del titolo di parroco per il territorio esteso dal posto clodiense sino alle foci dell’Adige.

All’interno del distretto clodiense fu potenziata la rete dei luoghi di culto: assursero al titolo parrocchiale le chiese di Cavanella d’Adige, Canal di Valle e Ca’ Bianca; sorsero inoltre nuovi oratori destinati ai lavoratori del comprensorio tra il Brenta e l’Adige: l’oratorio della Santissima Trinità edificato nel 1718 sui beni della famiglia Pagan in località Busiola, tra il Brenta e il porto di Fosson; quello di Sant’ Andrea posto nella valle ittica del Becco di proprietà della casa Sceriman; il piccolo oratorio di San Giuseppe sui fondi della famiglia Beccari compresi nella parrocchia di Ca’ Bianca; estintasi la congregazione dei canonici regolari di Santo Spirito nel 1656, nella chiesa di Brondolo, sotto la cura della famiglia Luccarini, si continuò, fino all’epoca napoleonica, l’officiatura di una messa quotidiana a vantaggio dei barcaroli, che transitavano abitualmente per quella località; anche presso il castello di San Felice, sede del presidio militare portuale, fu aperto un oratorio sotto l’invocazione della Beata Vergine del Rosario, affidato al giuspatronato dei Provveditori alle fortezze.

Nel circondario chioggiotto la chiesa che aveva assunto il ruolo di fulcro della devozione mariana fu, fino al ‘700, il tempio votivo della Madonna della Navicella, fondato il 20 luglio 1508 con la garanzia di una messa quotidiana celebrata da un cappellano designato dal Capitolo, il quale dal 1681 si stabilì che dovesse essere un confessore chioggiotto.

Sottomarina – Dopo il forzato abbandono da parte degli originari abitanti dell’antica Chioggia Minore in seguito alle distruzioni della guerra del 1378-81, il Lido di Sottomarina fu ripopolato a partire dal primo Seicento. Fino agli albori del secolo XVIII la cura delle anime di quel sobborgo era demandata al vicario della cattedrale, esentato solo dalla celebrazione dei matrimoni, che, per ragioni di equità economica, era distribuita a turno fra tutti i canonici.

Dopo un secolo di ininterrotto flusso immigratorio e conseguente incremento demografico, si era formata una comunità di discrete dimensioni, che nel 1712 si sentì in grado di richiedere il riconoscimento canonico della parrocchialità. Grazie al fortuito rinvenimento dei resti del basamento dell’antico tempio si riaccese la  memoria del lontano passato, accompagnata dal desiderio di rifondazione dell’originaria identità attorno alla chiesa di San Martino. Il senato accolse con favore la pia aspirazione, non osteggiata neppure dal Capitolo canonicale, che si limitò a ribadire la dipendenza della nuova curazia dalla cattedrale, conservata nel titolo di matrice, per cui de iure il parroco continuò ad essere il capitolo.

Il clero secolare

Sul clero si rifletteva la situazione di precarietà economica che affliggeva la maggior parte della popolazione diocesana, costituita in prevalenza da braccianti, pescatori e artigiani. Si trattava quindi di un clero povero, costretto per necessità a mendicare il proprio sostentamento dalla generosità dei fedeli. L’attività prevalente consisteva negli atti di culto, cui era annessa una gratifica, e pertanto, tolta la dottrina cristiana, l’apostolato era affidato all’iniziativa del singolo. D’altra parte i vescovi procedevano sempre con saggia cautela nel rilasciare patenti di confessore, ben sapendo che la direzione delle coscienze altrui poteva essere assunta solo da soggetti affidabili, sui quali i fedeli riponevano cieca fiducia.

Sullo scorcio del secolo XVII il clero secolare, tra presbiteri e chierici e una frequenza annuale di tre ordinazioni, appariva così distribuito sul territorio diocesano: Chioggia, 47 e 14; Malamocco, 9 e 3; Pellestrina, 9 e 4; Cavarzere, 24 e 13; Loreo, 21 e 650.

Nel trentennio 1730-60 il clero secolare di Chioggia fu interessato da un sensibile incremento, che ne comportò quasi il raddoppio, mentre nel secondo ‘700 il numero dei sacerdoti che esercitavano il ministero in città subì una progressiva flessione, divergente rispetto al coevo sviluppo demografico:

 

RIONE                                 1761    1780    1795
CATTEDRALE                      23        28        22
SAN GIACOMO                    64         51       37
SANT’ ANDREA                    36        27        30
 

TOTALE                               123       106       89

 

Il capitolo dei canonici della cattedrale

Il Capitolo dei canonici, organo primario della gerarchia del clero secolare posto sotto il patrocinio di sant’ Agnese, era formato, fin dal 1221, da 19 presbiteri residenti, sebbene l’ordinazione sacra non costituisse in origine un requisito imprescindibile. In esso rientrava, a titolo speciale ma senza effettivo rilievo, l’arciprete di Malamocco, il quale, fregiandosi anche del titolo di arcidiacono, rappresentava la prima figura dopo il vescovo con posto d’onore nelle cerimonie solenni. Tuttavia de iure non poteva considerarsi un canonico, ma solo una mera dignità; infatti non partecipava alla massa capitolare e non percepiva alcun provento per le funzioni alle quali interveniva e quindi l’attributo di canonico era puramente formale, non essendo correlato a concrete prerogative.

Nel 1422 il vescovo Pasqualino Centoferri istituì la dignità di decano sotto il titolo della Beata Vergine Maria allo scopo di assicurare al Capitolo un rappresentante che potesse presenziare regolarmente alle funzioni liturgiche e dirigere le assemblee capitolari.

In età medievale, quando più vivo era lo spirito di corporazione, i titolari erano eletti per cooptazione dagli stessi canonici, ma dal secolo XV i vescovi pilotarono in maniera sempre più decisa le surroghe e dal 1447 al 1584 furono assegnati alcuni canonicati anche dall’autorità apostolica.

In età tardomedievale potevano aspirare alla dignità canonicale tutti gli appartenenti a qualsiasi grado della scala ecclesiastica – preti, diaconi, suddiaconi, semplici chierici, sebbene di medio-alta estrazione sociale – ma nel corso del Cinquecento era invalsa la consuetudine di scegliere esclusivamente soggetti già consacrati, prassi che venne ufficialmente sanzionata dal sinodo del 1603.

Nel 1603 fu istituita la carica di penitenziere, congiunta inizialmente al canonicato di san Paolo e in seguito trasferita a quello di san Simon e san Giuda, e nel 1648 fu introdotto l’ufficio di teologo, annesso al titolo di san Giovanni.

Dal 1646 erano stati annessi alla mensa capitolare alcuni benefici semplici di modesta entità: priorato di San Martino dell’antica Chioggia Minore, San Leonarido di Malamocco, San Biagio di Fossa Magna, fondati su modeste basi patrimoniali.

La rendita capitolare consisteva in affitti di terre e case, cui si aggiungeva la massa degli incerti, in gran parte costituita da oneri su celebrazioni di anniversari in diverse chiese della città, uffici liturgici, funerali, settimane dei morti.

L’elevata densità del clero in un angusto ambiente urbano (inizio del ‘700, ndr) era all’origine degli attriti che intersecavano i rapporti tra canonici, regolari e semplici presbiteri. La prerogativa della parrocchialità veniva accampata come condizione prioritaria, cui subordinare privilegi e movimenti di altri settori clericali.

Nel corso della seconda metà del ‘700, in conseguenza della soppressione dei due monasteri cittadini di Domeni cani ed Eremitani, il Capitolo estese la sua area di competenza, assicurandosi il governo della chiesa di San Nicolò dotata dalla fraglia dei marinai di mansionerie per 187 messe annuali, di San Martino e dei Santi Pietro e Paolo, mentre quella di San Domenico fu avocata dal vescovo a motivo della sua vicinanza con la sede dell’erigendo seminario.

Con la perdita della parrocchialità, seguita al dispaccio del ministro per il culto del Regno italico del 14 febbraio 1809, il Capitolo si vide sottrarre uno dei cardini della sua identità ecclesiastica e dovette rassegnarsi a subire quella parabola involutiva che sarà caratterizzata da una patetica serie di erosioni degli antichi privilegi.

Relazioni tra gerarchia ecclesiastica e autorità civili

Il secolo XVII fu dominato da tre illustri figure di vescovi – Lorenzo Prezzato, Pasquale e Francesco Grassi – mentre gli altri personaggi che si avvicendarono sulla cattedra clodiense – Francesco Riva (1610-11), Francesco Baroni (1611-12), Bartolomeo Cartolari (1613-14), Pietro Milotti (1615-18), Giannantonio Baldi (1674-79), Stefano Rosada (1684-96) – non poterono disporre del tempo necessario per portare a compimento azioni pastorali di ampio respiro, avviate sotto i migliori auspici.

Il nuovo secolo fu contrassegnato, nel governo della diocesi, dalla continuità, consentita dall’avvicendamento di presuli estratti dalla nobiltà veneziana, la quale, in un’età di decadenza, non disdegnò dal collocare proprie creature anche nei vertici meno prestigiosi. L’opera dei presuli settecenteschi – Giovanni Soffietti (1716-33), Giovanni Maria Benzoni (1733-44), Paolo Francesco Giustiniani (1744-50), Alberto de Grandi (1751-52), Vincenzo Bragadin (1753-62), Gianagostino Gradenigo (1762-68), Giovanni Morosini (1770-73), Federico Maria Giovanelli (1773-75), Giovanni Benedetto Civran (1776-94) – si snodò secondo le direttrici dell’integrale educazione religiosa dei laici e della moralizzazione dei costumi del clero, con un potenziamento dell’opera preventiva mediante la regolare convocazione delle Congregazioni dei casi di coscienza. Nel contempo venne curata la conservazione del patrimonio e dell’edilizia sacra dell’intera diocesi, si tutelarono i tradizionali diritti della gerarchia ecclesiastica senza tuttavia osteggiare la politica giurisdizionalista dell’oligarchia veneziana.

Nell’ambito della diocesi clodiense le relazioni tra gerarchia ecclesiastica e autorità civili procedettero lungo un percorso in prevalenza lineare, solo a tratti interrotto da sporadici contrasti, che tuttavia non lasciarono strascichi di rilievo sulla vita locale.

La politica finanziaria nei confronti della Chiesa si muoveva su due piani fondamentali: sussidi al clero secolare di cui si riconosceva la valenza pedagogicosociale della cura d’anime; equa imposizione fiscale sututte le entrate degli ecclesiastici superiori ad un importo minimo, in ossequio al principio che aveva ispirato in età moderna i governi marciani «di una comune giustizia e della perfetta eguaglianza fra sudditi così ecclesiastici come secolari».

All’inizio del 1779 si scatenò un’accesa controversia tra canonici e cancellier grande, la quale, per certi versi, riecheggiava altre liti che in passato avevano agitato, seppur in superficie, la vita di quell’organismo.

Il secolo XVIII assistette ad una fitta sequenza di interventi sull’edilizia sacra sulla linea di decoro e magnificenza inaugurata dalla politica veneziana. Furono restaurate o ricostruite le chiese di San Giacomo, Sant’Andrea, Santissima Trinità, San Nicolò, San Domenico.

Con l’instaurazione della Municipalità provvisoria sotto l’egida dell’armata francese, i rapporti tra i due poteri non subirono mutamenti di rilievo. L’ingresso di qualche sacerdote nella compagine amministrativa cittadina agì da fattore di garanzia nei confronti sia della gerarchia ecclesiastica sia della popolazione, tra la quale serpeggiava il sospetto che il nuovo regime covasse l’intenzione di inaugurare una nuova stagione proprio sul piano dell’esperienza religiosa.

La breve esperienza democratica stava insegnando che un progetto politico non avrebbe trovato adeguata risonanza tra le classi popolari senza la solerte collaborazione delle autorità religiose, le quali, durante le successive dominazioni straniere, sarebbero state coinvolte in nuove forme di relazione con il mondo politico.

Dal regime napoleonico al concilio Vaticano II

La riforma napoleonica della Chiesa (1802-1814)

I circondari ecclesiastici e i delegati – Nel perio-do del dominio napoleonico le frontiere italiane furono modificate più frequentemente che in qualunque altra epoca storica, dopo le guerre fra le Signorie dei secoli XIV e XV. I cambiamenti, che Napoleone apportò alla geografia politica italiana, furono caratterizzati dal più assoluto disprezzo per la volontà delle popolazioni interessate e non vennero rispettate, neppure, le divisioni interne alle diocesi.

Anche nel Veneto i confini dipartimentali e distrettuali vennero cancellati e ridimensionati più volte inbreve arco di tempo dal 1803 al 1812.

La diocesi, la curia e la mensa vescovile – La diocesi non subì però nessun mutamento o restringimento di confini nel periodo napoleonico, nonostante il pericolo di soppressione insorto nel 1806. Neppure la bolla “De salute domini ci gregis” (1 maggio 1818), che sanzionerà la soppressione delle diocesi di Caorle e Torcello, porterà alcun rimaneggiamento. La configurazione ambientale e sociale sconsigliava l’eventuale smembramento e l’annessione alle due più affini diocesi vicine: Venezia e Rovigo.

I vescovi – Dalla discesa del generale Bonaparte nel giugno 1796 alla ricomposizione della seconda Cisalpina nel giugno 1800, i vescovi dell’Italia settentrionale sperimentarono l’occupazione militare straniera, francese e asburgica, nonché la rapida sequenza di governi e regimi. In questo periodo era vescovo di Chioggia mons. Domenico Stefano Sceriman, (1795-1806), nobile veneziano dell’ordine domenicano. Egli dovette misurarsi con i nuovi organismi politici, nati per iniziativa del Bonaparte, come conseguenza degli eventi militari e dei trattati di pace. Di fronte alle trasformazioni sociali e politiche, alle iniziative legislative così inedite e profonde, cercò di trovare una pacifica convivenza. Quale vescovo dello Stato veneto egli viveva nel contesto della pax veneziana e degli equilibri raggiunti tra Santa Sede e Dogado, dopo le polemiche sarpiane. Egli fu testimone della rivoluzione e della guerra, delle trasformazioni apportate dai governi giacobini tra il 1796 ed il 1797, dello Stato austriaco tra il 1798 ed il 1805 e della nascita del Regno d’Italia nello stesso anno.

Con la progressiva estensione del Regno d’Italia, Chioggia venne a farne parte nel 1806. La guida della diocesi fu affidata a mons. Peruzzi, uno dei 16 vescovi nominati da Napoleone nella primavera del 1807. Il suo fu un trasferimento dalla sede di Caorle e veniva a chiudere una fase di disagio ed incertezza, dovuta alla vacanza della sede durata circa un anno. Egli non proveniva dal patriziato veneziano come invece i suoi predecessori. Per volontà di Napoleone il decreto di nomina era stato trasmesso, insieme a quelli degli altri 15, «senza esitazione» alla Santa Sede per i processi informativi e le investiture canoniche.

Dalla fine del 1807 al 1815 fu testimone ed interprete delle complesse ed articolate riforme volute da Napoleone nel settore ecclesiastico, giuridico e sanitario; nella fase più acuta del neogallicanesimo visse il trauma dell’arresto e dell’imprigionamento di Pio VII nel 1809, la convocazione del Concilio Nazionale del 1811 e il “Concordato” del 1813, la demaniazione degli enti religiosi, la divisione delle parrocchie urbane del 1809. Dovette confrontarsi con le risoluzioni sovrane e con le circolari ministeriali; offrire preghiere pubbliche per le vicende militari e familiari dell’imperatore. Assistette alla regolamentazione del matrimonio civile, alla separazione tra l’anagrafe civile e parrocchiale, all’imposizione del nuovo catechismo, alla coscrizione militare, alla campagna di vaccinazione, alla pubblicazione dei codici. Fu così chiamato a farsi carico delle iniziative dello Stato, a collaborare proficuamente con il governo in vista dei fini superiori dell’ «ordine e dell’incivilimento della società».

A Chioggia il regolamento disciplinare delle chiese fu emanato con il decreto dell’8 febbraio 1809 e portò alla divisione della città in tre parrocchie, il cui decreto vescovile d’ erezione (10 agosto 1809) comprese anche la fondazione della parrocchia autonoma di San Martino in Sottomarina.

La Restaurazione

Durante la Restaurazione, il governo della diocesi riprese con la ricostituzione delle confraternite laicali e la riorganizzazione della scuola del seminario, per il quale il veneziano Giuseppe Manfrin Provedi (1818-30) emanò le “Prescrizioni disciplinari per le cattedre e le scuole del seminario vescovi le di Chioggia” (1821), con le quali accoglieva i nuovi ordinamenti dati dal governo austriaco, senza tuttavia riuscire ad aprire il convitto interno.

Esperto pastore d’anime, grazie all’esperienza parrocchiale svolta a Schio, dove era stato arciprete dal 1785 fino alla nomina vescovile, dopo alcuni anni dal suo ingresso in città, aveva intrapreso la visita pastorale nel 1822, facendola precedere da un lunghissimo e minuzioso questionario in tutte le parrocchie.

Per evitare le negative conseguenze morali, si preoccupò particolarmente dell’educazione delle donne, favorendo la ripresa della vita del convento di Santa Caterina, affidandolo ad alcune religiose e aprendo una filanda, che occupava più di 400 tra fanciulle e donne.

I preti Scolopi di Chioggia si impegnarono in soccorso dei ragazzi e degli adulti con le scuole serali a San Nicolò. Per loro il Manfrin Provedi nutrì una grande stima.

Godette dell’amicizia di Antonio Rosmini, che consacrò al diaconato e al presbiterato nella chiesa cittadina della Santissima Trinità il 21 aprile 1821.

Mons. Antonio Savorin

Del padovano Antonio Savorin (1830-40) conosciamo gli atti della visita pastorale del 1834, la prima dell’Ottocento di cui possediamo la documentazione. Il quadro della diocesi in essa registrato non sembra allontanarsi dallo schema delle altre diocesi vicine, caratterizzate dalla pratica della vita cristiana con peculiarità proprie della gente di mare, meno legata ai ritmo dell’anno liturgico rispetto al mondo rurale. Infatti i giorni festivi vengono santificati e frequenti sono le comunioni, particolarmente delle donne.

Savorin dette anche impulso all’organizzazione del catechismo, specie in città, ponendosi sulla linea dei suoi predecessori. A lui, infatti, si deve la compilazione di un testo di catechismo che troviamo regolarmente usato nel corso della visita, durante la quale i parroci organizzavano le dispute.

La visita del Savorin documenta anche che nel trentennio postnapoleonico ci fu sufficiente tempo per far risuscitare le confraternite o scuole che l’imperatore aveva proibito; anche l’appartenenza ad esse, in questo periodo, è più marcatamente ridotta al beneficio dei suffragi e delle indulgenze. Esse hanno una decisa linea di ortodossia cattolica, sviluppando le devozioni ufficiali nelle chiese come le confraternite del Santissimo, dell’Addolorata, del Crocifisso, della Croce, del Rosario e della Beata Vergine del Carmine.

Il vescovo Jacopo ne Foretti

Due visite pastorali contrassegnarono il lungo episcopato del padovano Jacopo De Foretti (1842-67), durante il quale risultarono in leggera diminuzione numerica i preti, grazie anche al corso di studi più selettivo con la presenza del seminario e all’esodo di molti sacerdoti a causa della vita grama del clero locale.

L’aggiornamento o la formazione permanente del clero veniva affidato alle riunioni periodiche dei casi, che variavano dalle quattro alle sei volte all’anno; in esse venivano affrontate le questioni dottrinali, soprattutto di morale, attinenti all’esercizio del ministero.

L’azione pastorale esercitata da questo clero restava prevalentemente ancorata alle celebrazioni culturali e alle devozioni; quanto alla dottrina cristiana essa veniva affidata a maestri e maestre laici, sotto la guida di un sacerdote. A coadiuvare l’organizzazione diocesana si aggiunse l’Opera di Santa Dorotea, promossa da due fratelli bergamaschi, don Luca e don Marco Celio Passi, giunta a Chioggia nel 1854. Le fanciulle ascritte nel 1858 erano 900, divise in 39 drappelli con altrettante sorveglianti e circa 80 assistenti. Non è da dire che nonostante questi sforzi tutti venissero raggiunti dalla catechesi, se ad esempio le Scuole pie raccoglievano di sera 200 ragazzi delle classi più povere della città, occupati Nel lavoro durante il giorno, per il catechiscmo e la scuola.

Il 1848

Dopo il ritorno dell’Austria, nel 1850, De Foretti si curò, in risposta a due circolari prefettizie, della non ingerenza del clero in politica, e, infatti, mai vi furono, nel periodo della terza dominazione austriaca, momenti di tensione tra il clero e l’autorità austriaca, ma piuttosto di collaborazione. Ciò non impedì che si covassero sentimenti antiaustriacanti nel clero a Loreo, Cavarzere e Rottanova.

Il ’48 non era comunque passato invano. Nuovi principi, non tutti conformi alla religione cattolica, si facevano strada negli animi. Il De Foretti avvertì che le correnti liberali moderate non anticlericali, ma decisamente laiche, entravano in città con la stampa che aveva comunque una ristretta cerchia di lettori.

Il sinodo del 1863

Approfittando dell’ottenuta facoltà d’indire i sinodi diocesani, in seguito alla firma del concordato del 1855 tra Austria e Santa Sede, egli celebrò nel 1863 – a distanza di oltre 201 anni – un sinodo diocesano, nel quale si rivelò polemico contro le tesi gianseniste. Lo volle «quasi testamento spirituale di un vescovo» longoeva aetate impellente. Fu infatti un sinodo carico di un ‘impronta personale «teologicamente elaborato – come osserva B. Bertoli – e rivelatore di una singolare spiri tualità, che appare particolarmente nutrita di pietà mariana»

mons. De Foretti si mostrava attento alla realtà di una terra, economicamente e socioligicamente sottosviluppata qual era la diocesi clodiense. Favorì l’apertura dell’Istituto per giovani pericolanti voluto dal canonico mons. Nicolò Maria Bonaldo nel 1858 e quello del “Cuore Addolorato di Maria” per fanciulle miserabili fondato dal canonico Antonio Boscolo nel 1860. Autorizzava la vendita di calici e di suppellettili per dare il pane agli indigenti, per salvaguardare i costumi, per provvedere letti e vesti. «Sono da lodarsi i parroci che adornano le proprie chiese, – annotava – ma meritano l’apoteosi se si preoccupano di nutrire i poveri». Sembra di risentire le esortazioni del vescovo Nacchianti. Infatti i pastori dovevano prendere cura paterna dei miseri e bussare alle porte dei ricchi.

Un ultimo avvenimento, degno di nota, fu l’insediamento dei padri della Compagnia di Gesù nel 1864, ai quali il De Foretti assegnò il santuario di San Domenico, perché aprissero un istituto superiore di educazione, ma otto giorni prima dell’entrata delle truppe italiane, nell’ottobre 1866, essi si allontanarono dalla città. Lo Stato liberale con i suoi provvedimenti richiamava alla memoria gesti analoghi a quanto aveva fatto, all’inizio del secolo, Napoleone, con la cancellazione del riconoscimento giuridico delle corporazioni religiose, con il conseguente incameramento delle loro case, istituti e proprietà, che vennero demaniate, sorte che toccò alla congregazione dei padri Filippini nel 1867. I cattolici chioggiotti si confermarono nei loro propositi di battagliera opposizione, particolarmente il clero, che sarà compatto tra gli intransigenti al sorgere dell ‘Opera dei Congressi.

L’episcopato di Domenico Agostini (1871-77)

Alla morte del De Foretti, dopo una vacanza di cinque anni, veniva nominato alla sede vescovile mons. Domenico Agostini. Arrivava a Chioggia dalla cattedrale di Treviso. Non avendo ottenuto il “regio exequatur” dal governo Lanza, dovette alloggiare in seminario e non nel palazzo vescovile. Egli, che nel 1848 a Treviso aveva fatto parte delle milizie cittadine, fu fatto oggetto degli attacchi anticlericali della stampa locale una volta arrivato in città nel gennaio 1872

Se la polemica era accesa con l’area liberale, il rapporto vescovo-fedeli, poggiato sotto il governo austriaco sulla linea di un paternalismo assistenziale, continuò a favorire da parte del popolo l’accettazione sulle direttive del vescovo e del clero diocesano. Così fino all’accentuarsi delle lotte fra intransigenti e liberali. Sul piano pastorale, soprattutto durante il quinquennio in cui la sede era rimasta vacante, non mancarono segni di disimpegno fra il clero, ma la situazione cambiò radicalmente con l’arrivo del vescovo, il quale promosse in diocesi i comitati cattolici e cercò di instaurare il clima intransigente dell’Opera dei Congressi.

Effettuò con minuziosa attenzione, negli anni 1874-75, la visita pastorale, prendendo visione della situazione generale della diocesi. Per quanto riguarda il distretto di Chioggia, le condizioni dal punto di vista religioso erano nel complesso confortanti: buona la frequenza ai sacramenti, rari i matrimoni separati o celebrati col solo rito civile. Grave invece la situazione scolastica, soprattutto nelle frazioni. Sue cure principali furono la pubblicazione dello statuto e del regolamento della “Società della santificazione delle feste”, che furono accolti come indebita ingerenza clericale negli affari civili dal giornale laicale “La laguna”.

L’azione pastorale nell’Ottocento

Quale sia stata l’azione pastorale dei vescovi e del clero nel corso dell’Ottocento è possibile vedere attraverso i questionari delle visite pastorali. Essi rivelano una forte carica ascetica, sottolineata dall’accentuazione, tutta tridentina, dei controlli sulle funzioni religiose, sull’amministrazione dei sacramenti, sul retto funzionamento delle liturgie funerarie, secondo quella linea pastorale che programmava di salvare l’umanità attraverso una rigorosa osservanza della pratica religiosa. La perfetta uniformità verbale tra i questionari della visita Savorin e della prima del De Foretti conferma una certa staticità pastorale nel corso di oltre 50 anni e mostra come la città fosse, per certi aspetti, un mondo relativamente chiuso.

I questionari delle visite pastorali del periodo costituiscono comunque una conferma della difficile lettura da parte dei vescovi, legati ad uno schema canonico, dei nuovi fenomeni socio-culturali.

Dalla fine del secolo XIX agli albori del ‘900

L’annessione all’Italia che aveva concluso un lungo periodo di sudditanza ai poteri politici, portò anche la Chiesa clodiense alla presa di coscienza graduale dell’emergere di una nuova società non più coincidente con la cristianità. Se ne era già accorto il vescovo Agostini, ma furono i suoi successori a registrare la sempre più accentuata espressione di distacco dalla chiesa o dalla pratica religiosa. Si trattò da principio di accorgersi del fenomeno, in seguito di capire e di interpretare una realtà che stava sviluppandosi in forme storicamente inedite. Negli anni tra il 1878 e il 1908 fu chiamato a reggere!

La diocesi il vescovo Lodovico Marangoni. La situazione religioso-diocesana fotografata dalla visita pastorale da lui compiuta, tra il 1879 e il 1880, presentava i sintomi di una crisi religiosa indicati dai parroci nell’alta percentuale di inconfessi, nelle separazioni matrimoniali, nei concubinati e negli adultèri. La flessione religiosa era a livello etico più che di mentalità. Pescatori e ortolani si stavano sottraendo alle consuetudini rituali più per mestiere che per corruzione della mente. Ma era sintomatico che in cattedrale su 7000 anime venissero computati 3000 inconfessi, a Sant’ Andrea 7500 circa 3500, a San Martino di Sottomarina su 3200 circa 1500. Se le percentuali alla periferia erano più basse, il fenomeno era più rilevante nella zona del litorale.

Fin quasi alle soglie del ‘900 non c’è quasi accenno al socialismo. D’altra parte solo alle elezioni generali del 1889 comparvero, per la prima volta, nelle liste elettorali di Chioggia due operai, che vennero esclusi per la poca rilevanza che la questione operaia aveva soprattutto in città. Ma intanto si era venuta costituendo, specie nel Cavarzerano e nel Delta del Po, una massa di braccianti o salariati agricoli con una mentalità nuova e consuetudini differenti rispetto al tradizionale mondo agricolo: non più propensa ad ascoltare il prete che parlava di doveri morali e di rassegnazione e disponibile invece alla propaganda rivoluzionaria. Le prime agitazioni in diocesi si ebbero lungo il 1884, quando il movimento polesano de “La boje” guadagnò i contadini delle terre vicine all’ Adige, duramente provate dall’inondazione di due anni prima. Alle elezioni generali del 1889, che segnarono la sconfitta dei cattolici, seguì un periodo difficile. L’esclusione dell’insegnamento catechistico nelle scuole e l’asportazione dei crocefissi e di altri simboli religiosi dai luoghi pubblici, la soppressione nel bilancio comunale del sussidio al culto, inasprirono la lotta.

Mons. Marangoni si mosse anche sul piano sociale. Poiché la Pia Casa d’Industria stentava ad avere gli sviluppi che il vescovo Agostini aveva sognato e si attestava su una dozzina di ragazzi raccolti ed iniziati al lavoro, volle che si insediassero a Chioggia i Salesiani di don Bosco, che furono invitati nel 1894 e giunsero nel 1899.

Altre iniziative però si mossero istituzionalmente sul piano economico-sociale, pur sempre conservando un’ispirazione religiosa cristiana: il circolo Giovanni Dondi dell’Orologio (1891) e varie sezioni giovanili nelle parrocchie. Nel 1903, accanto al comitato diocesano e a quelli parrocchiali, alle casse rurali già esistenti, alle sezioni giovani, alle pie opere per la santificazione delle feste e alle pie associazioni della buona stampa, volle promuovere la pia unione degli operai per la santificazione del lavoro.

Sul finire del secolo la Chiesa clodiense si trovava priva di ordini religiosi maschili; erano presenti solo 4 case femminili di canossiane (2 in città e 2 in diocesi) e una di Ancelle della Carità nell’ospedale civile. Il clero, con una popolazione di circa 100.000 abitanti, contava su 124 preti e su 80 seminaristi. La pastorale continuava a incentrarsi sulla parrocchia, anche se cominciava ad avvalersi di un laicato non numeroso, ma aperto a collaborare con nuovi strumenti d’azione.

Agli inizi del nuovo secolo, davanti alle prime manifestazioni socialiste, il vescovo si sentiva di incoraggiare il parroco di Donzella che aveva costituito nel 1906 una cassa operaia cattolica e, di fronte alle tensioni che nel settembre di quell’anno caratterizzarono l’area di Loreo e di Donada «infestate da socialisti», il vescovo ottantaseienne, alle prese con la nuova realtà, giudicava che il nuovo male era da combattere più che non le sporadiche manifestazioni di gruppi anticlericali.

La prima guerra mondiale

Al vescovo Marangoni, scomparso nel 1908, successe immediatamente Antonio Bassani, scelto dal clero diocesano. Era stato dato all’anziano presule come coadiutore con diritto di successione nel 1905. Già presidente dell’Opera dei Congressi diocesana, Bassani stava concludendo la visita alla diocesi, iniziata nel 1906, a nome dell’anziano vescovo. Immediatamente egli volle iniziare la sua prima visita, dopo la quale ripeté le osservazioni del suo predecessore, aggiungendovi solo qualche notizia relativa all’edilizia sacra.

Per quanto riguarda il movimento cattolico, sciolta l’Opera dei Congressi il 28 luglio 1904, il Bassani aveva avviato, già da presidente del comitato diocesano, la ristrutturazione dell’ organizzazione.

Nelle relazioni ad limina il suo giudizio sul clero era buono, nonostante quello diverso del visitatore apostolico del 1906. Il contatto quotidiano gli rivelava infatti un clero temperante, di sana devozione, anche se non brillante per cultura. Nella spiritualità sacerdotale ribadiva la linea della tradizione postridentina, insistendo nelle congregazioni dei casi mensili, negli esercizi spirituali e nei ritiri.

Alla vita della diocesi egli dedicava le sue lettere pastorali e aveva avviato la preparazione alla celebrazione del sinodo, che aveva stabilito di indire il 7 dicembre 1911. Ma la salute fragile gli impedì di realizzare il progetto.

Durante la guerra, su 115 sacerdoti diocesani 19 erano sotto le armi e si crearono dei vuoti sia nel seminario che nelle organizzazioni giovanili; la chiesa diocesana si radicò allora ancora più profondamente nel tessuto sociale, perché, oltre all’attività solita, sostenne l’onere di varie iniziative e opere assistenziali. Sotto la guida della giunta diocesana si organizzarono: l’Ufficio notizie, il segretariato del soldato, l’Ufficio ricerche, il segretariato del popolo, la commissione della leva dei soldati, il comitato femminile indumenti, una biblioteca circolante per i soldati.

Settori da lui privilegiati erano la scuola e l’educazione giovanile, le associazioni, la stampa e le opere sociali. Non esistevano in diocesi scuole private, se non alcuni asili e una scuola elementare retta dalle Canossiane, ma l’attenzione si apriva all’insegnamento della religione nella scuola, che, se non trovava ostacoli in quelle primarie, aveva delle difficoltà in quelle secondarie. Allora egli desiderò affiancare in città il circolo “Contardo Ferrini” per i ragazzi e alcuni ricreatori, scuole catechistiche, oratori serali e festivi distribuiti in diocesi e alcune biblioteche circolanti. Favorì anche la nascita di un settimanale diocesano, “La scintilla” , che, nato il 6 luglio 1913, sotto la direzione di don Angelo Paternostro, visse fino al 1917, quando fu sospeso per mancanza di fondi.

Gli anni tra le guerre mondiali

All’epoca dell’ascesa e del consolidamento del fascismo la guida della diocesi era affidata allodigino mons. Domenico Mezzadri, il quale nella prima lettera pastorale alla diocesi evidenziava la sua difficoltà a cogliere l’evoluzione socio-politica in atto.

Al centro dell’attività pastorale il nuovo vescovo impose la giunta diocesana del movimento cattolico con l’intento di risvegliare le forze cattoliche su alcuni problemi emergenti: il rafforzamento del movimento economico-sociale, la presenza del mondo del lavoro con l’unione popolare, l’assistenza agli studenti.

L’ufficio del lavoro, richiamato in vita durante la guerra, divenne punto di riferimento e la bandiera delle confuse speranze dei lavoratori.

Ci furono anche preti sensibili al problema del lavoro: don angelo Boscolo per gli ortolani, don Eugenio Bellemo per la pesca, ma si trattava di una sensibilità tutta personale, ultima propaggine della sensibilità sociale maturata durante il primo decennio del secolo.

Il vescovo che era stato accolto all’ingresso in Chioggia con proteste di un gruppo di pescatori, non volle mai entrare in questo ambito per mediarne le tensioni, pur non essendo impermeabile alla prospettive sociali.

Un certo numero di rappresenti del mondo cattolico non disdegnò sguardi di simpatia verso il fascismo sia pure con motivazioni e sfumature diverse.

Ma quando per le nuove elezioni venne presentata una sola lista demo-fascista, in extremis il Partito Popolare si dissociò. Ormai le violenze erano diventate pressoché quotidiane specie nel Polesine, dove zuffe furibonde, accoltellamenti e bastonature si ebbero un po’ dovunque, ma particolarmente a Oca e a Loreo.

L’avversione al fascismo da parte cattolica, anche se non assoluta e non sempre conclamata, trovava le radici nel rifiuto della violenza e nella diffidenza verso persone, non certo esemplari, presenti nel partito e nel dissenso politico-sociale. L’atteggiamento del clero fu neutrale nella maggioranza, mentre fu favorevole nel canonico Dughiero, osteggiato particolarmente dai responsabili dell’ Azione Cattolica, guidata da don Mario Alfieri.

Dopo il consolidamento del regime fascista, certamente ci fu uno sforzo per evitare il più possibile la polemica e per non rompere con quella parte del mondo cattolico che il fascismo aveva conquistato. Mons. Mezzadri con altri sacerdoti rimase estraneo ad ogni schieramento, anche se delegò all’Alfieri, insofferente del regime, l’educazione dei giovani.

La presenza della chiesa assunse caratteristiche tipicamente sindacali, anche aldilà delle leggi speciali, che avevano determinato, tra l’altro, lo scioglimento d’ogni forma di organizzazione operaia, tranne quelle fasciste. E sotto la coperta di fare Azione Cattolica. cercò di allontanare la gente dalla tirannide fascista.

Lo sforzo principale del clero fu dunque concentrato dal vescovo nello sviluppo qualitativo e quantitativo dell’ Azione Cattolica, anche perché stava diminuendo il clero diocesano, che era passato dai 115 sacerdoti del 1917 agli 80 del 1936.

Per l’attività sociale un segretario s’interessava delle crociate per il riposo festivo, per l’apostolato in risaia e per l’attività delle casse rurali, che esistevano ancora in diocesi. Le organizzazioni cattoliche potevano usufruire della presenza della stampa cattolica locale e nazionale diffusa dall’unico comitato cittadino della “Societa della buona stampa” che in diocesi era attivo dal 1885.

Per favorire il culto eucaristico mons. Mezzadri in disse nel 1923 il primo congresso eucaristico diocesano, durante il quale venne affidato a don Vittore Bellemo il compito di musicare i canti.

Durante questo episcopato ebbe sviluppo anche l’attività operosa a favore delle missioni, guidata da don Tullio Salvagno.

Quelli del vescovo Mezzadri furono 16 anni, tutto sommato di riorganizzazione della diocesi.

L’episcopato di Giacinto Ambrosi

Nel marzo del 1938 fece il suo ingresso a Chioggia il cappuccino Giacinto Ambrosi, che resse la diocesi fino al suo trasferimento a Gorizia. La diocesi contava allora 140 mila abitanti, 30 parrocchie e 9 curazie, raggruppate in 6 vicariati con 84 sacerdoti e 20 religiosi distribuiti in 4 comunità e 232 religiose in altre 27. Alla fine del suo episcopato egli avrebbe portato le parrocchie al numero di 47, introdotto i francescani a Taglio di Po e aumentate le comunità femminili a 37 con 267 suore. Si troverà aumentato anche il numero dei sacerdoti, 118, e degli abitanti, 155.82067.

Ambrosi si mostrò subito uomo attento alla realtà viva e alla cronaca della diocesi. La curiosa e appassionata attenzione ai bisogni dell’oggi scaturiva dalla sua esperienza di pastore, che conosceva la realtà diocesana, specialmente quella polesana, per gli anni passati quale parroco nella vicina Adria. Questo aspetto, unito al desiderio di dire una parola comprensibile, è facilmente rilevabile dalle sue lettere pastorali, nelle quali centrava i temi fondamentali della vita cristiana legati agli avvenimenti della storia quotidiana, scritte con l’obiettivo di aiutare clero e fedeli ad essere attenti ai  problemi attuali.

Quando dopo 1’8 settembre del 1943 la situazione si aggravò, egli si adoperò attraverso i Salesiani e il filippino Antonio Carisi a salvare la vita ai ricercati politici e ad alcuni partigiani. Determinante fu la sua opera per la salvezza di Chioggia e l’allontanamento delle truppe tedesche dalla città il 27 aprile 1945.

Poteva parlare a voce alta sul tema che aveva voluto sul suo motto episcopale “Iustitia et pax”, perché nel Delta, pieno di un salariato oppresso e fortemente battuto dalla propaganda marxista, aveva cominciato a fondare un’impalcatura cristiana d’inserimento nel mondo del lavoro con l’Onarmo e con le Acli, favorendo la creazione del Segretariato del popolo per la tutela dei diritti dei lavoratori, creando la mensa, il circolo ricreativo, le assemblee per lo studio e il dibattito dei problemi e l’azione sociale.

Fu il primo ad istituire i cantieri di lavoro per i disoccupati, al punto di cedere il proprio orto del vescovado come sede di uno di questi, per appoggiare la costituzione di cooperative cristiane di ortolani. Attraverso la Pontificia Opera di Assistenza distribuì la carità del papa e aprì una cucina per i poveri nel 1949 con l’istituzione del Fraterno Aiuto Cristiano.

Visitò due volte la diocesi, nel 1939 e nel 1947, prendendo visione personale dei problemi che esistevano.

In occasione del referendum istituzionale del 1946, egli richiamò tutti al dovere del voto senza impartire alcuna direttiva. Ciò che premeva era che fossero salvaguardati i diritti della persona, la famiglia e l’educazione dei figli. Invece per le elezioni amministrative del 1946 e quelle politiche del 1948, in linea con le disposizioni della Congregazione concistoriale e l’atteggiamento dei vescovi, invitò a far votare i cattolici per la Democrazia Cristiana.

Intuì anche l’importanza della stampa cattolica e si impegnò alla fondazione, nel 1939, del settimanale diocesano “Il foglietto della domenica”, stampato e diretto a Padova, la cui redazione venne affidata a don Leonida De Gobbi. Il giornale ebbe vita breve, fino alla fondazione nel 1945 del settimanale “La Nuova Scintilla”, diretta da mons. Mario Alfieri. Nel raccomandarlo alla diocesi egli scriveva che il miglior impiego del denaro era quello che si faceva per diffondere la stampa cattolica.

I suoi giudizi sulla diocesi, costruiti nel contatto continuo, suonarono pesanti.

Tuttavia, nel giudizio sintetico del 1951, il vescovo sentì il bisogno di attenuare quanto aveva scritto, giudicando se stesso molto severo in quello che aveva espresso nelle relazioni precedenti.

La sua ultima relazione ad limina era stata preparata prima della disastrosa alluvione del 14 novembre 1951, che rovinò circa metà della diocesi: «Le acque raggiungono in alcuni comuni del Bassopolesine: Loreo, Contarina, le profondità di 4 o 5 metri. Tutta la popolazione è dovuta fuggire, abbandonando ogni cosa. I miei sacerdoti tutti con coraggio superiore ad ogni elogio furono i primi ad accorrere in soccorso e salvataggio della popolazione, esponendosi al pericolo e talvolta abbandonando ogni cosa. Ora in molte parrocchie è desolazione e morte. In nessun luogo la guerra, nel suo cruento passaggio, ha seminato tante distruzioni e tante rovine. Qualche chiesa è già crollata, qualche altra è seriamente minacciata, tutte le chiese e canoniche alluvionate subirono danni più o meno gravi. E che cosa rimarrà?». L’interrogativo del vescovo non si fermava a lamentare i danni, ma suggeriva di dare una sufficiente sicurezza alle campagne del Polesine, regolando e rinsaldando gli argini del Po e, dell’ Adige e introducendo un sistema per facilitare il deflusso delle acque.

Dall’alluvione al concilio Vaticano II

Nei primi 11 anni dell’episcopato di mons. Giovanni Battista Piasentini (1952-1976), anche nella diocesi clodiense si manifestarono significative avvisaglie delle trasformazioni che stavano mutando l’Italia. La grande alluvione portò una serie di problemi che incisero non solo sulla vita sociale ma anche ecclesiale. La catastrofe accentuò le diversità e le arretratezze sociali ed economiche degli anni Cinquanta, che erano state registrate anche in alcune ricerche sociologiche. Alluvioni e condizioni talora inumane portarono il fenomeno dell’ esodo da una terra dura e ritenuta senza speranza di riscatto dalle prostrate popolazioni locali. I profughi che furono costretti a cercare rifugio nel retroterra toccarono i 100 mila. La fuga dei soggetti più intraprendenti raggiungerà nell’arco del decennio 1951-61 un calo della popolazione nel territorio polesano fino al 2 per cento, sfiorando in alcune zone il 40 per cento con esodi soprattutto verso Milano e Torino, che sconvolsero la vita di intere comunità e sradicarono dal contesto religioso e umano interi nuclei familiari. Tra queste rovine il vescovo si inserì con il piglio dell’uomo deciso sorretto dalla ferrea volontà e da un disegno pastorali tendente a far riemergere dalle acque la vita e a far riprendere lo slancio perduto di una gente ormai in diaspora.

In questo clima s’inserì l’azione di mons. Piasentini, che univa al servizio del gregge lo stile di un inesauribile evangelizzatore con una parola vibrante, che portava chiari i segni della sua forza d’urto e del suo carattere, con una serie di manifestazioni, le quali pare siano l’ispirazione a monte di un cammino spirituale che ha finito per coinvolgere con una sorta di scadenzario l’intera diocesi. Tra queste vanno ricordate l’anno mariano (1954), l’anno del Sacro Cuore (1957), l’anno del Cuore Immacolato di Maria (1958), l’anno eucaristico (1959-60), l’anno dello Spirito Santo (1962) e l’anno del Preziosissimo Sangue (1964).

Mons. Piasentini non si preoccupò solo degli aspetti religiosi. Un’aspetto drammatico del nostro dopoguerra che l’alluvione rese ancora più tragico, fu la disoccupazione. Qui c’era da rifare e da ricostruire. Mons. Piasentini ottenne numerosi cantieri di lavoro che diresse personalmente con la capacità manageriale che aveva già esibito nella veste di padre Cavanis e di fondatore della casa di Esercizi spirituali Sacro Cuore di Possagno. Accogliendo le proposte della P.O.A., favorì la costituzione della Pia unione tra i pescatori, raccogliendo i frutti di una assistenza morale e sociale incominciata da tempo e, per iniziativa del delegato regionale della P.O.A., si istituì la prima Pia Unione Italiana fra i pescatori proprio a Chioggia il 10 ottobre 1954. Così come conduceva l’opera di ricostruzione materiale delle strutture sociali e pastorali, con altrettanta energia provvedeva alla costruzione del piano pastorale diocesano in prima persona, in maniera tale che sembrava voler accentrare in sé tutta l’attività, mentre si lasciava guidare dalla logica paolina del «guai a me se non annuncerò il Vangelo».

Nel 1956, pur valutando che mancavano ancora 10 parrocchie per completare la distribuzione della presenza ecclesiale nel territorio, con la creazione di nuove parrocchie in città e nelle zone rurali, egli poteva dimostrare di aver già edificato in un quinquennio 9 chiese curaziali e parrocchiali con relativa casa canonica, 30 asili, 12 centri sociali, 4 patronati per ragazzi e 2 centri professionali a Chioggia (1954), affidato ai padri Cavanis, e a Donada (1956), la casa di esercizi “Madonna del Divino Amore”. Gli furono favorevoli le circostanze delle alluvioni del 1951 e 1957, che, sotto questa prospettiva, egli considerava essere state un’ occasione positiva di intervento dello Stato fino allora latitante, ma è fuori di dubbio che le sue capacità dirigenziali gli permisero, bussando al governo, agli enti internazionali e nazionali, ai privati, l’opera di ricostruzione delle strutture indispensabili all’andamento pastorale.

Il quadro generale della diocesi poté così cambiare in un breve giro d’anni. Le parrocchie che erano 39 nel 1942 con 10 curazie e una popolazione di 147.291 abitanti divennero 60 nel 1961 con una popolazione di 151.569. Nei due anni successivi la popolazione diocesana diminuì a causa dell’emigrazione, che coinvolse soprattutto il Polesine fino a raggiungere i 130.239 abitanti. I risultati della sua azione e della sua strategia pastorale egli li misurò sul buon andamento delle nuove elezioni politiche ed amministrative dal 1956 al 1961.

Anche per il clero e per i religiosi egli ebbe molte attenzioni. I sacerdoti diocesani residenti nel 1956 erano 106, le congregazioni religiose maschili 7 con 28 religiosi, le congregazioni femminili 23 con 351 suore. Nel 1961 i preti diverranno 111, 34 i religiosi e 374 le suore. Per il clero egli promosse i corsi di aggiornamento sia residenziali che mensili. Per i sacerdoti novelli, nel 1961, nasceva il convitto ecclesiastico San Gregorio Barbarigo, che, sotto la guida di mons. Angelo Monaro, doveva preparare per un anno i neo-ordinati nel loro inserimento pastorale.

Per dare maggior forza istituzionale alla sua attività pastorale, volle avviare un sinodo diocesano, orientato «non solo a estirpare errori ed abusi, ma anche a mettere in onore tra i fedeli la vita cristiana… promuovere le manifestazioni del culto divino… favorire e aiutare il raggiungimento della perfezione nel clero e nelle anime a Dio consacrate… istillare l’obbedienza sempre più perfetta verso il magistero e il potere giurisdizionale della Chiesa, che si incontra nel romano pontefice».

Di fronte all’annuncio del Concilio ecumenico, anche se sorpreso, come molti vescovi del resto, dell’iniziativa papale, preparò la diocesi al grande avvenimento.

Dovette rimanere molto perplesso di fronte a certi atteggiamenti e a certe aperture, che tuttavia egli accettò con quel profondo spirito di fede che caratterizzò tutta la sua vita.

La situazione nel 1990

Secondo l’annuario del 1990 la diocesi conta 124.500 abitanti, divisi in 68 parrocchie a loro volta riunite in 6 vicariati foranei. Il vicariato foraneo della città comprende le parrocchie della cattedrale, San Giacomo, Sant’Andrea, San Domenico, Maria Ausiliatrice, Patrocinio della Beata Vergine della Navicella, Buon Pastore, San Michele di Brondolo, Sant’Anna e San Gaetano di Chioggia, San Giorgio di Cavanella, Beata Vergine del Rosario di Ca’ Bianca, Santi Giovanni Battista ed Evangelista di Ca’ Lino (10 parrocchie con 28 mila abitanti); quello di Pellestrina le parrocchie di Ognissanti, Sant’ Antonio di Padova, Santo Stefano protomartire, San Pietro apostolo (4 parrocchie con 5400 abitanti); quello di Cavarzere le parrocchie di San Mauro, San Giuseppe e Maria Mediatrice in Cavarzere, San Maria Assunta di Rottanova, Santa Maria della Neve di Foresto di Cona, San Francesco d’ Assisi di Boscochiaro, San Pietro apostolo di San Pietro di Cavarzere, San- t’Antonio di Padova di Dolfina, San Gaetano di San Gaetano di Cavarzere, Maternità di Maria di Passetto, Maria Addolorata di Ca’ Briani di Cavarzere, San Giuseppe di Pettorazza Grimani, Natività di Maria di Pettorazza Papafava, Beata Vergine delle Grazie di Fasana, Beata Vergine del Carmine di Ca’ Emo (15 parrocchie con 19800 abitanti); quello di Loreo le parrocchie di Santa Maria Assunta di Loreo, Beata Vergine del Rosario di Tornova, Visitazione di Maria di Donada, Presentazione di Maria di Fornaci, San Pio X di Taglio di Donada, San Giovanni Battista di Ca’ Cappello, San Paolo apostolo di Porto Levante, Sant’ Antonio di Rosolina, Santa Maria del Rosario di Volto, San Nicola di Albarella, Sant’Ignazio martire di Rosapineta, San Giorgio di Mazzorno di Adria, Madonna della Pace di Cavanella Po di Adria, San Bartolomeo di Contarina, Santa Maria Madre della Chiesa di Scalon di Contarina, Santa Maria Nascente di Ca’ Cappellino di Contarina, San Francesco d’Assisi di Taglio di Po, San Francesco di Assisi di Mazzorno Destro (18 parrocchie con 31.500 abitanti); quello di Ca’ Venier le parrocchie di San Nicolò di Ca’ Venier, Sacro Cuore di Gesù di Ca’ Tiepolo di Porto Tolle, Beata Vergine del Rosario di Tolle, San Domenico di Ca’ Mello, Santa Maria Assunta di Polesine Camerini, Beata Vergine del Carmine di Donzella, Beata Vergine del Santissimo di Oca di Taglio di Po, San Giuseppe di Ivica-Santa Giulia, Santo Redentore di Scardovari, Beata Vergine del Carmelo di Bonelli, Cuore Immacolato di Maria di Gorino Sullam, Beata Vergine della Cintura di Villaregia, San Giacomo apostolo di Boccasette, San Carlo Borromeo di Pila-Ca Zuliani (14 parrocchie con 14.000 abitanti).

Lungo il corso del XX secolo la diocesi ha visto un avanzamento di sviluppo progressivo: dalle 30 parrocchie dell’inizio del secolo essa è passata alle attuali 68 contro una diminuzione della popolazione passata da 144.933 abitanti agli attuali 124.500, che si raddoppiano nel periodo estivo per la presenza dei turisti. I sacerdoti diocesani residenti sono 100, di cui circa un terzo oltre i 70 anni. I religiosi sono 35, di cui 26 sacerdoti e 4 fratelli, distribuiti in 8 comunità con 4 parrocchie. Le comunità religiose femminili sono 29 con 180 membri. A Villaregia di Contarina esiste una comunità missionaria (associazione pubblica di fedeli) con 30 sacerdoti e oltre 60 consacrate.

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