RETE MONDIALE DI PREGHIERA DEL PAPA

Sporcarsi le mani…

Intenzione di aprile del papa

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“Per i medici e il personale umanitario presenti in zone di guerra che rischiano la propria vita per salvaguardare quella degli altri.”

“Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all’albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno”. (Lc 10,33-35)

Sul bordo della strada c’è un ferito. Non riesce a muoversi, è inerme e disperato. Ha bisogno di aiuto ma nessuno si ferma sulla strada, anzi, basta voltare lo sguardo su un altro punto e il ferito non esiste più. La parabola – raccontata da Gesù al dottore della legge che lo ha interpellato su quale sia il comandamento più importante – è attuale oggi come lo era allora. Il comandamento è unico e l’amore per il Signore è connesso a quello per il prossimo. Per molti cristiani individuare chi sia il “prossimo” è difficile: il rischio, la tentazione è quella di chiudere gli occhi, di non intercettare i bisogni di chi ci è accanto. Ancora più ostico è farsi carico e “sporcarsi le mani” con chi vive lontano, il pensiero comune che accompagna chi decide di partire in missioni umanitarie è: “poteva aiutare i bisognosi vicino alla sua casa, i suoi amici, i parenti più vicini”. Cosa spinge il personale sanitario a muoversi e rischiare la vita in teatri di guerra impietosi, pericolosi e crudeli? Questa domanda ce la poniamo spesso, soprattutto da quando i conflitti coinvolgono principalmente civili e gli ospedali sono diventati bersagli sensibili da colpire per primi. Cosa li spinge a perseverare in contesti senza speranza, dove la loro azione sembra un’inutile goccia nel mare? Oggi il 90% delle vittime sono civili, persone come noi, con una famiglia, un lavoro, una casa, dei sogni, delle passioni e delle speranze. Il volto della guerra e della distruzione è cambiato: lo scopo è distruggere la società civile, la gente comune. Se prima erano i campi di battaglia, le trincee – seppure orribili nelle loro atrocità – oggi i teatri di guerra sono le strade, le case, i villaggi. Le armi che si usano sono molteplici, non convenzionali, nella loro brutalità implacabile, per lasciare segni nei morti ma anche nei sopravvissuti. Bombe “intelligenti”, armi da fuoco ma anche mine antiuomo, gas letali fino ad arrivare a incendi, stupri, mutilazioni. L’atteggiamento che possiamo avere nei confronti di tutto questo è duplice e opposto: possiamo essere il buon religioso che passa dall’altro lato della strada, occupandoci solo della nostra vita, dei nostri problemi, dei nostri figli e nipoti, ben attenti a non mescolare, confondere o lasciare spazio nel nostro cuore ai problemi degli altri (“ma chi te lo fa fare?”) oppure allargare il cuore, fermarci a toccare quelle ferite, a versarci sopra il nostro olio e il nostro vino, lasciarci il nostro denaro, tornare a visitare. Questo prevede rischiare, soffrire di più, vedere e aprire gli occhi su cose che non avremmo mai voluto sapere. Questo vuol dire amare, esercitare la virtù della Carità, soccorrere Cristo ferito, mutilato, solo, dilaniato. Razionalmente partire, rischiare la propria vita contro il Male non ha senso: non è vantaggioso, quasi sempre non risolve che una minima parte dei problemi e delle difficoltà delle popolazioni. Sempre è pericoloso, rischioso ogni istante. Eppure perseverare nel bene, donare la propria vita è un segno di speranza. In un contesto di orrore e di morte sapere che qualcuno da lontano è venuto per assisterti anche se non ha più medicinali, se le sale operatorie sono state bombardate, se non c’è luce né acqua, ha un valore inestimabile. Un valore che supera grandemente l’apparente “inutilità” del gesto. Sappiamo bene che amare concretamente non calcola il risultato, non chiede nulla in cambio. Ama e ama fino alla morte, il suo senso è nel dare.

Marta Rovagna