Una mano sulla bocca

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SGUARDO PASTORALE

Una mano sulla bocca

È proprio vero. Di fronte all’esperienza della sofferenza e della morte non possiamo che mettere una mano sulla bocca e restare in silenzio. Può essere un silenzio di angoscia e disperazione, un silenzio di rassegnazione e sconfitta, un silenzio di sconcerto e paura, oppure un silenzio di stupore e adorazione. Quest’ultimo è il silenzio del credente, che non pretende di spiegare il fenomeno ma di coglierne il senso. Il centurione romano, racconta l’evangelista Marco, contemplando il modo con cui aveva donato la vita, disse di Gesù: “Costui è veramente il Figlio di Dio!”.

Sono stato sollecitato a fare questa riflessione dall’associazione “Volontari assistenza pazienti oncologici” di Mestre, che mi ha invitato a partecipare ad una conversazione proprio sull’interpretazione cristiana della sofferenza e della morte. Ho letto un po’ di saggi, ma ho fatto soprattutto riferimento alla mia esperienza di vita che, come quella di tutti, ha incontrato la sofferenza e ha sperimentato il dramma della morte sia nella partenza dei familiari che nella conclusione della vicenda terrena, a volte prematura, da parte di amici e parrocchiani.

La morte è un evento biologico, connaturale all’esistenza terrena, una dimensione costitutiva ed ineludibile della persona, in quanto appartiene alla sua finitudine. Ma il morire è un’esperienza umana: è l’uomo che muore, è la persona che fa questa esperienza e solitamente essa è drammatica e angosciante. Di fronte all’incapacità di vincerla, l’uomo moderno tende ad esorcizzarla, a nasconderla, a relegarla in uno spazio circoscritto e separato. Ciò che poteva essere il naturale “trapasso” da questo mondo all’eternità ora è colto come tragico pericolo di perdersi, di cadere nel nulla. Tutto l’opposto di quanto provavano i santi, che vivevano una tale comunione con Dio da poter vivere questo passaggio come “dies natalis”, come momento di comunione, non di separazione. Ciò è possibile se si legge la vita e la morte alla luce della Pasqua del Signore Gesù. Nella Pasqua viene rivelata la pienezza della vita, spesa per amore e destinata all’eternità. E conseguentemente il senso della morte stessa, intesa come passaggio, compimento, glorificazione.

Quando si afferma che Cristo ha vinto la morte, non si afferma che egli ha tolto la necessità di morire, ma che ne ha superato la drammaticità connotandola di speranza, la speranza della risurrezione e della partecipazione alla vita stessa di Dio. Da qui la correzione di alcuni errori in cui rischia di cadere il sentire comune: che la sofferenza sia un castigo per il male commesso, che la morte sia la conseguenza del peccato, che sofferenza e morte siano mandati da Dio per punizione. Non è così. Dio è onnipotente, ma nella misericordia e nel perdono, la sua vera forza è l’amore. Sentirsi amati è un bisogno essenziale, soprattutto nel momento della sofferenza e della morte. Chi accosta un malato non è chiamato a dare spiegazioni, a pronunciare formule o produrre sentenze, ma a testimoniare l’amore di Dio attraverso la compassione e la presenza. La compassione è la capacità di sentire con la persona malata, di immedesimarsi, di sperimentare qualcosa delle sue paure, ansietà, tentazioni e, proprio per questo, è disponibilità ad aiutarla concretamente a portarne il peso. La presenza è la capacità di creare relazione, di trasmettere la pace e la fiducia che vengono dalla fede, è ascolto, umiltà, tenerezza, una mano da afferrare, una spalla su cui piangere, un cuore cui affidare un segreto per liberare l’anima e renderla capace di volare. Al credente non servono parole. Lo spessore della fede è racchiuso nell’atto di affidamento da condividere con colui che ci ha acquistato la vita perché ha accettato di morire per noi: “Padre, nelle tue mani abbandono il mio spirito!”.

don Francesco Zenna