2ª Domenica di Avvento,

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2ª Domenica di Avvento, Anno B, 10 dicembre 2017

Liturgia (II)

Is 40, 1-5.9-11 – 2 Pt 3,8-14 – Mc 1, 1-8

Quando il profeta lancia il grido “Consolate il mio popolo”, esso aveva proprio bisogno di consolazione, perché la sua fede si stava leggermente spegnendo.

La buona notizia data dal profeta è che il Signore viene a riprendersi il suo popolo e lo vuole ricondurre come gregge nella terra dei padri. È un annuncio di liberazione e di ritorno alla propria terra. È un esodo inverso!

Proposta per la 3° preghiera dei fedeli per la 2ª Domenica di Avvento Anno B:

“Dio di ogni consolazione, guarda i popoli che attendono la tua venuta apportatrice di pace e serenità, in particolare tutti coloro che per motivi diversi sono costretti ad abbandonare la loro terra vivendo disagi, distacchi forzati e ogni forma di inquietudine. Per questo ti preghiamo.”

S. D.

Catechesi (II)

Il tema di questa 2ª domenica di Avvento prende spunto dalla 1ª lettura, in cui il Profeta Isaia annuncia agli Israeliti esuli a Babilonia la fine dell’esilio e il ritorno in patria, e dal Vangelo di Marco dove incontriamo la figura di Giovanni il Battista: “Uno che grida nel deserto”.

Diventa doveroso allora gettare lo sguardo su un fenomeno di cui tanto si parla e che diventa sempre più drammatico: il fenomeno delle migrazioni. Le cronache quotidiane, infatti, portano continuamente alla ribalta notizie che concernono questo incredibile e drammatico fenomeno delle migrazioni di popolazioni dell’Africa e del vicino Oriente verso l’Europa.

Proprio in questo tempo di Avvento, penso possa essere utile, trovando il momento più adatto nei nostri incontri di catechesi, soffermarci a riflettere.

Si potrebbe iniziare da una frase del libro del Levitico 19,34 che recita: “Tratterete lo straniero, che abita fra voi, come chi è nato fra voi; tu lo amerai come te stesso…”.

Chi è lo straniero, il migrante che siamo chiamati ad accogliere e… ad amare?

È un essere umano, vittima della pulizia etnica del proprio Paese o della violenza religiosa o della fame causata da siccità o inondazioni o delle guerre, che abbandona temporaneamente o definitivamente il proprio “mondo” all’interno del quale si era svolta la sua esistenza fin dalla nascita.

Proprio i migranti, con la loro condizione essenziale di persone che partono senza sapere dove andare, nel senso che pur conoscendo il paese di destinazione non sanno assolutamente nulla di ciò che accadrà loro durante il viaggio e se arriveranno alla meta, ci mostrano l’identità più autentica dei credenti, vale a dire, come dice San Pietro nella sua prima lettera, di essere “un popolo di stranieri e pellegrini” (1Pt 1,1. 2,11).

Ecco che la condizione nella quale si trovano attualmente milioni di persone dovrebbe spingere la Chiesa e il cristiano a scoprire la caratteristica essenziale del suo essere… Aiutare, allora, l’emigrante è andare in mezzo a persone che si sentono straniere e dir loro, con la nostra disponibilità ad accoglierli e con la nostra testimonianza che nasce dal Vangelo, che Dio stesso si è fatto uno straniero in Cristo, ed è, in definitiva, aiutare e amare coloro con i quali Cristo si identificò: “Fui straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35).

D. M.

Carità (II)

Dio non è lontano e non ha bisogno di una strada preparata dagli uomini per raggiungerli, il nostro è un Dio vicino, ma sono gli uomini che hanno bisogno di una strada che non sia la loro, secondo i loro progetti e le loro prospettive, poggiata sulle proprie sicurezze.

La strada di Dio, come tutte le altre strade, è segnata dalla provvisorietà e dall’incertezza: la strada è costantemente di passaggio e ogni tappa è provvisoria finché non si raggiunga la meta. Ma ha anche l’incertezza del passo dell’uomo costretto a ritrovare ogni volta l’equilibrio in una sorta di “decentramento” che lo fa uscire da se stesso e avventurarsi verso gli altri. In questo quotidiano esodo verso la Terra Promessa non si cammina da soli, la strada di Dio è affollata di uomini.

Isaia ci viene in soccorso, dice qualcosa su cui soffermarci… il deserto, non è il luogo dell’abbandono, ma il luogo di Dio. Allora dobbiamo renderci consapevoli: Cristo lo incontriamo se ci diamo da fare, se diamo retta ai tanti profeti che ancora camminano accanto a noi e che ci suggeriscono i percorsi dell’interiorità, se teniamo gli occhi e il cuore aperti.

Nella nostra storia il Signore ci ha mandato e ci sta mandando chi l’esodo l’ha vissuto e lo vive concretamente attraversando davvero il deserto e il mare e lasciando in essi giovani generazioni. Un camminare in senso opposto, un abbandonare la propria terra per cercare speranza. Non possiamo e non dobbiamo leggere il fenomeno delle migrazioni come semplice fatto di necessità, un evento ineludibile della storia (da accogliere o rifiutare in base a ideologie e pregiudizi). Forse è una nuova “voce che grida”, che ci chiede di ripensare alle nostre certezze, ai tanti colli da spianare e valli da colmare. Noi, oggi, qui.

Attilio Gibin