Strumento della tenerezza di Dio

zenna
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SGUARDO PASTORALE

Strumento della tenerezza di Dio

È la parabola del buon Samaritano che descrive “la disponibilità a farsi prossimo” richiesta ad ogni presbitero. Questo è il suo ministero. Per cui egli lo esercita se vive una relazione “sponsale” con “quella Chiesa in cui la Provvidenza” lo ha fatto abitare, “nella quale, per le vicende della vita, si trova ad operare e per il cui servizio è ordinato”. Può non essere la migliore, piena di limiti e difetti umani, ma è “la sposa di Cristo”, è la sua famiglia, “resa tale dal legame profondo con i confratelli nel ministero, a cominciare dal Vescovo”. Sono diversi i compiti e gli uffici, “ma alla base rimane sempre e comunque un vincolo che, prima di essere giuridico, è teologico, sacramentale e, dunque, affettivo, nel senso più nobile del termine”. Non ci sono parole più chiare per descrivere la “carità pastorale” che porta il presbitero a incarnare i sentimenti stessi di Cristo che, a differenza dei sacerdoti della legge antica, si è fatto “in tutto simile ai fratelli”. Mentre descrive concretamente “lo stile e le virtù del pastore” il Sussidio Lievito di fraternità sottolinea che “la sventura che mai dovrebbe accadere a un prete è quella di trascinarsi in un ministero esercitato in maniera puntuale, ritualmente perfetto e dottrinalmente completo, ma disincarnato sul piano delle relazioni umane”. Può avvenire per il suo carattere, oppure perché non è disposto a giocarsi fino in fondo e si trincera dietro una innocua mediocrità, oppure appesantito dalle proprie debolezze.

È necessaria la disponibilità a lasciarsi mettere in discussione, a lasciarsi correggere “dalla Parola di Dio, da quella dei confratelli e del proprio popolo”. Alcune impostazioni pastorali denunciano proprio questa chiusura e incapacità, immobilizzano la persona del presbitero “nel chiuso del tempio o della canonica” piuttosto che spingerlo “in mezzo alla vita della persone”. Al di là delle parole sono i fatti che testimoniano queste errate impostazioni: giovani che si allontanano perché non trovano spazio per esprimersi nella liturgia o per socializzare nelle strutture parrocchiali, famiglie insoddisfatte perché non hanno mai ricevuto una visita, neppure in occasione di particolari lutti o sofferenze, poveri amareggiati perché non si sono mai sentiti ascoltati anche quando veniva allungato loro qualche genere alimentare, coscienze disorientate da giudizi senza appello o da superficiali assoluzioni. Ed è proprio questa della celebrazione del sacramento della Riconciliazione “la forma peculiare” della carità pastorale esercitata dal presbitero, è lì che egli amministra “la tenerezza di Dio” offrendo ascolto e perdono. Così egli “esce in cerca della pecora perduta, accompagna lentamente le pecore madri e porta gli agnellini sul petto, prende su di sé le debolezze del gregge (…) compie il costante sforzo di sanare le situazioni difficoltose, perdonare i gesti poco virtuosi, correggere con pazienza i motivi di divisione valorizzando ciò che unisce”. La comunità cristiana percepisce se c’è questa vicinanza, che non è primariamente fisica. La diminuzione del numero dei sacerdoti porta a incontrarli più raramente e a volte in modo sfuggente. La presenza è a orari stabiliti, ma l’importante è che il cuore sia a tempo pieno. La disponibilità non è data dalla costante presenza e dal puntuale protagonismo, accompagnati magari da un animo rancoroso, da tratti burberi e scontrosi, da atteggiamenti di sufficienza e di superiorità. La disponibilità è verificata dal gusto della relazione con un uomo – così lo definisce Papa Francesco – di pace e di riconciliazione, attento a diffondere il bene con la stessa passione con cui altri curano i loro interessi”.

Don Francesco Zenna

Da Nuova Scintilla n.38 – 8 ottobre 2017