Un cuore nuovo a immagine di Dio e del suo figlio Gesù

Facebooktwitterpinterestmail

PAROLA DI DIO – DOMENICA XXIV DEL TEMPO ORDINARIO – A

LETTURE:  Sir 27,30-28,7; Dal Salmo 102; Rm 14, 7-9;  Vangelo  Mt 18, 21-35

Un cuore nuovo a immagine di Dio e del suo figlio Gesù

Sir 27,30-28,7 “Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati”.
Il Libro del Siracide è pieno di insegnamenti desunti dall’esperienza illuminata dalla fede. Libro dunque ‘sapiente’ che nei primi secoli della Chiesa ha contribuito a educare concretamente alla vita di fede, tanto che era denominato anche ‘Liber ecclesiasticus’, Ecclesiastico. In esso gli insegnamenti sono rivolti da maestro a discepolo su ogni ambito della vita umana. Oggi il tema affrontato è il perdono. Il maestro invita il discepolo a evitare i comportamenti insensati dettati dalla vendetta, dall’ira, dal rancore, sentimenti che oltre che essere distruttivi per l’uomo erigono una barriera anche nel rapporto fra Dio e uomo.

Andando oltre, egli invita il discepolo a spalancare il cuore alla misericordia. Il perdono verso chi ci ha fatto dei torti è condizione indispensabile per chiedere e ottenere il perdono di Dio: “Se qualcuno conserva nel suo cuore il rancore contro un altro uomo, come avrà il coraggio di chiedere grazie a Dio?”. Anche il pensiero della ‘fine’ deve indurre a ‘smettere di odiare’. Abbiamo qui una pagina dell’Antico Testamento che ci dispone all’ascolto della parola di Gesù che porta a pienezza questi insegnamenti.

Dal Salmo 102: “Il Signore è buono e grande nell’amore”.

Dopo una prima strofa in cui l’orante rivolge a se stesso l’invito a lodare il Signore, seguono tre strofe che motivano la lode, per quello che Dio è e fa. Positivamente: perdona, guarisce, salva, circonda di bontà. Negativamente: non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno, non ci tratta secondo i nostri peccati, non ci ripaga secondo le nostre colpe. In una parola la sua è una misericordia smisuratamente potente (una misura alta come il cielo è alto sulla terra) ed egli ha una larghezza di cuore da allontanare anche il pensiero delle nostre colpe (le allontana quanto l’oriente, da dove sorge il sole, dista dall’occidente, dove esso tramonta). Lui fa ed è così con noi, e noi come siamo e facciamo con ogni nostro fratello?

Rm 14, 7-9: “Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore”.

C’erano a Roma due gruppi di cristiani. Alcuni che Paolo chiama i deboli, erano legati alle antiche tradizioni, osservavano i digiuni, vivevano con uno stile austero, si astenevano da certe carni; altri invece, che lui chiama i forti, si sentivano obbligati solo al comandamento dell’amore al fratello (chi ama il fratello ha adempiuto la Legge), sentendosi liberi dalle altre prescrizioni. Questi contrasti creavano tensioni nella comunità di Roma. I deboli  accusavano i forti di permissivismo, i forti per reazione tacciavano i deboli di chiusura mentale, incapaci di comprendere la novità del vangelo. Era possibile una convivenza pacifica? Paolo, che si considerava tra i forti, propone loro il rispetto per i deboli e per le loro pratiche religiose un po’ antiquate, e ai deboli chiede che anch’essi si astengano dal giudicare i forti pensando che essi siano infedeli al vangelo. Nelle poche righe del cap. 14 proposte oggi Paolo presenta un principio che aiuta a risolvere ogni contrasto: il cristiano tenga sempre presente che egli non vive per se stesso, per la ricerca di ciò che piace a lui, ma per il Signore. Nel suo rapporto con i fratelli, dunque, non deve mai lasciarsi guidare da considerazioni umane, ma vivere e morire “per il Signore”. In questo essere ‘per il Signore’ sta la sorgente della vera unità della comunità.

Vangelo  Mt 18, 21-35:  “Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno…”.

La parabola illustra il tema del perdono insegnato da Gesù. Esso è introdotto dalla domanda di Pietro cui Gesù risponde che al fratello va concesso il perdono sempre e senza misura. Nella parabola prima interviene il Padrone (Dio) col suo atto di grazia: il servo meriterebbe una condanna illimitata (è il senso del grande debito praticamente per lui insolvibile). Poi interviene la misericordia del Padrone invocata dal servo stesso. Il risultato è il condono totale del debito. Così fa Dio di fronte alla preghiera sincera dell’uomo. Poi l’attenzione si sposta a considerare il rapporto tra i due servi, sottolineando le conseguenze della negazione del perdono che il servo perdonato dal Padrone nega al suo ‘con-servo’. In certo modo la parabola illustra la quinta richiesta del Padre Nostro (6,12): “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, ripresa in 6,14-15: “Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se voi non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”. Perdono e riconciliazione costituiscono un tema centrale della predicazione di Gesù. I destinatari della parabola sono tutti gli uomini nella loro ‘povertà’ davanti a Dio. Gesù ha sempre ribadito che tutti gli uomini sono oggetto della misericordia di Dio. Ma la misericordia di Dio mira a trasformare l’uomo, perché anche lui diventi misericordioso. La domanda posta da Pietro: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello se pecca contro di me?”, proviene dal vecchio modo di intendere la vita di fede, preoccupata di osservare quello che dice ‘la legge’. Pietro ha anzitutto bisogno di essere trasformato. Nello svolgimento della parabola misericordia ricevuta e misericordia da rendere non possono essere separate, ma sono inscindibilmente unite. Il cristiano deve comportarsi come Dio si è comportato con lui e fare agli altri ciò che Dio ha fatto a lui. L’uomo che dona misericordia è, di fronte a Dio, anzitutto uno che la riceve a sua volta senza alcun merito. Il giudizio di condanna del Padrone nel confronto del primo servo è provocato dal comportamento impietoso del servo stesso verso il suo ‘con-servo’.

+ Adriano Tessarollo

 

Nuova Scintilla n.35 – 17 settembre 2017