Vocazione presbiteriale

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SGUARDO PASTORALE

Vocazione presbiteriale

Leggendo il titolo di questo mio intervento, qualcuno penserà che ho sbagliato a digitarlo. E invece no. “Per chi voglia assumere il ministero presbiterale è imprescindibile la verifica di avere una vocazione presbiteriale, con tutto quanto ciò comporta in termini di capacità di relazioni fraterne, di dialogo, di decisione comune e responsabilità condivisa”. Questo passaggio del contributo di Roberto Repole, apparso su “La Rivista del clero italiano” (6/2017), mi ha spinto ad alcune riflessioni di carattere pastorale utili sia per i confratelli che per i laici delle nostre comunità.

Normalmente si pensa al presbitero come a un “subordinato” al Vescovo, delegato del suo potere, che egli esercita autorevolmente in una porzione di Chiesa di cui è messo a capo. Nel giorno del suo ingresso nella nuova realtà cui è destinato si dice che è “immesso in possesso” della parrocchia, perché da quel momento egli può amministrare i beni spirituali, con la celebrazione dei sacramenti, e quelli materiali, con la gestione del patrimonio. Dal punto di vista giuridico, del resto, funziona proprio così, perché egli è tenuto a rendere conto alla Diocesi del suo operato, ad ottemperare ai mandati ricevuti secondo delle precise regole canoniche, ad operare in comune accordo con i responsabili diocesani dei diversi settori. Diversamente si creerebbe una situazione caotica, dove visioni soggettive e parziali provocherebbero una pericolosa schizofrenia pastorale.

Ciò che conta però è lo spirito e la prospettiva dell’esercizio del ministero. Innanzitutto lo spirito, che è quello del servizio e non dell’esercizio del potere; il servizio a un progetto di Chiesa in costante sviluppo per rispondere adeguatamente e in forme sempre nuove all’invito del Maestro ad evangelizzare e a santificare. E poi la prospettiva, che è quella della testimonianza e non dell’imposizione di precetti; la testimonianza dell’amore fraterno che rende visibile e incontrabile il Signore Gesù dentro le vicende della storia. Per un presbitero il luogo dove è chiamato a vivere servizio e testimonianza è prima di tutto il presbiterio. Lì egli sperimenta quella fraternità che non è frutto semplicemente di empatia e affinità nelle idee e nel carattere ma di una grazia speciale che deriva dal sacramento dell’Ordine. Non verrà mai sufficientemente sottolineato il significato dell’imposizione delle mani nella celebrazione, che viene fatta non solo dal Vescovo ma da tutti i presbiteri presenti, come partecipazione e trasmissione reciproca dell’azione gratuita ed efficace dello Spirito Santo sulla persona dell’ordinando. Lì, nel presbiterio e in nome del presbiterio, quindi in dialogo con il Vescovo e i confratelli, il prete imposta e sviluppa quel servizio che viene ritenuto più importante e più consono alle mutevoli situazioni personali da una parte e socio culturali dall’altra. Per i laici invece il luogo dove sono chiamati a dare la loro testimonianza e prestare il loro servizio è primariamente il mondo, abitato in un preciso stato di vita, costruito attraverso l’esercizio di una professione, animato dalla costituzione di relazioni significative nella realtà sociale, politica, economica, educativa ed ecclesiale. Vedo il punto d’incontro della vocazione di presbiteri e laici nella comunità cristiana, parrocchiale vicariale o diocesana che sia, dove servizio e fraternità si sostanziano di ascolto della parola, di preghiera comune, soprattutto quella liturgica, di dialogo e scambio reciproco, di valorizzazione dei carismi e di esercizio dei ministeri. Il presbitero non è né sopra né di fronte rispetto a questa comunità, ma profondamente inserito, a dare ragione della sua vocazione, che è, proprio per questo, “presbiteriale”.

don Francesco Zenna

Nuova Scintilla n.34 – 10 settembre 2017