Chiesa in minoranza

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SGUARDO PASTORALE

Chiesa in minoranza

Detto così suona negativo. Una Chiesa che ha contribuito profondamente allo sviluppo della cultura occidentale, che ha accompagnato per secoli la formazione delle coscienze, che ha inciso nelle scelte politiche e sociali dei singoli e di intere comunità civili, che ha posto sul territorio strutture edilizie e organizzative capaci di condizionare perfino il mondo del lavoro e dell’economia, può arrivare ad essere minoranza? Potrebbe suonare, ripeto, una sconfitta. Tant’è vero che alcuni movimenti di pensiero e di impegno ecclesiale cercano di difendere queste posizioni, convinti che ad esse è legato il permanere dell’esperienza della fede e la salvaguardia di quelli che sono stati definiti “valori non negoziabili”. In realtà ci accorgiamo che la nostra civiltà sta percorrendo altre vie, che il materialismo ha soffocato ogni anelito di trascendenza, che l’edonismo ha avuto il sopravvento sulla morale, e l’esercizio del potere è in altre mani e viene esercitato per ben altri scopi. Inoltre, non si tratta di una spinta ideologica attribuibile a qualche teorico, ma di una prassi di cui è protagonista la massa. Quasi più nessuno interroga le norme e i precetti della Chiesa quando opera le sue scelte nella sfera familiare, sessuale, biologica, così come da tempo non l’interroga più circa la giustizia, l’equità, la solidarietà tra i popoli e l’accoglienza del diverso.

Allora c’è una pretesa di maggioranza ma una reale situazione di minoranza, che va accolta con consapevolezza e gestita in termini evangelici e non sociologici. Gestirla in termini sociologici vorrebbe dire difendere i propri spazi, salvaguardare i privilegi, mantenere in piedi le strutture tradizionali della vita cristiana, pur registrando l’abbandono da parte dei giovani, la disaffezione degli adulti e il lento spegnimento degli anziani che ancora frequentano le nostre liturgie. Gestirla in termini evangelici vuol dire invece rivedere le prassi, analizzarne senso e contenuto, cogliere l’aspetto positivo di questo “segno dei tempi” e avviare percorsi nuovi. In altre parole vuol dire rinnovare la pastorale. Non è più possibile pensarla ed editarla con la logica della maggioranza quando in realtà questa non c’è più. E forse provvidenzialmente. Quando San Pietro scriveva ai cristiani dell’Asia Minore, discriminati dal mondo giudaico e perseguitati da quello pagano, non chiedeva che venissero “serrate le file” allo scopo di ribaltare la situazione. Chiedeva che, in nome di Cristo e con la forza che viene da Lui, dessero la personale coerente testimonianza di un inedito modo di vivere le relazioni tra loro, con i persecutori e con Dio. La forza della minoranza è la coerenza della vita, la pastorale in una situazione di minoranza si gioca sulle relazioni, l’incisività della minoranza è la capacità di andare anche contro corrente, pagandone di persona le conseguenze. L’identità, in un contesto di minoranza, non è data dall’appartenenza a un gruppo ma dalla qualità che le proprie convinzioni riescono ad esprimere. Per cui lo statuto dei cristiani va ridefinito nell’ordine della grazia, accolta e vissuta, e non dell’osservanza delle regole. Queste stabiliscono dei confini, quella abbraccia le periferie. La consapevolezza di essere minoranza non deve perciò suscitare l’ansia del proselitismo e della conquista, ma impegnare piuttosto nella testimonianza di quella che viene chiamata la “differenza cristiana”.

don Francesco Zenna

Da Nuova Scintilla n.4 – 29 gennaio 2017