La sindrome di Giuda

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SGUARDO PASTORALE

La sindrome di Giuda

“Sono per una città più pulita, una politica più collaborativa, l’osservanza delle regole, anche le più piccole, il rispetto delle persone e delle istituzioni, le strategie per il superamento di ogni forma di dipendenza (droga, alcool, gioco in particolare); sono per la progettualità a favore della famiglia e della vita, del lavoro e della formazione, per una risposta concreta a qualsiasi forma di povertà (materiale, morale e psichica); sono per la professionalità di quanti svolgono un servizio alla collettività, dalla salute all’educazione, l’equità nelle decisioni, la serietà e la coerenza nelle relazioni pubbliche; sono per la sussidiarietà anche tra le istituzioni, costruita nel riconoscimento del ruolo e del contributo di ciascuna e nel loro dovuto sostegno, senza deroghe e supplenze, ma con l’unico condiviso obiettivo di ottenere il miglior bene per tutti». Ho risposto così a chi mi chiedeva: «Ma tu, da che parte stai?».

Non ho fiducia negli schieramenti, perché il più delle volte nascondono interessi privatistici. Non credo alle contrapposizioni, perché teorizzano che la verità stia solo da una parte. Rifuggo dalle manifestazioni di piazza, perché cavalcano la logica della massa costituita da persone non sempre consapevoli e coerenti. Sento di seguire cordialmente chi porta delle ragioni, chi analizza i problemi, chi suggerisce soluzioni, chi si impegna, e impegna, non solo a raccogliere il consenso ma a creare mentalità.

Ho riflettuto sulla ricaduta pastorale di una simile posizione e l’ho trovata molto evangelica. Quando nei Consigli pastorali si affrontano questioni tecniche e organizzative è importante non cadere nella logica puramente sociologica delle opportunità o della maggioranza. Nella Chiesa, come sappiamo, non vige la forma democratica del consenso, ma l’esperienza comunionale dell’ascolto e del discernimento. La differenza non è tanto di tipo strutturale ma di stile, perché resta sempre chiaro per tutti, e per tutte le questioni, il fine, cioè l’avvento del regno di Dio. È un fine che ha lo spessore della storia e dell’eternità, che ci viene dato nel presente e tende al suo pieno compimento, che giustifica il sacrificio e la rinuncia, rivaluta il provvisorio e la stessa fragilità, è iscritto nel progetto d’amore che Dio ha sull’umanità tutta. È chiaro che un fine così non sopporta divisioni, non mette in competizione, non giustifica alcun interesse che non sia quello di tutto il popolo di Dio e di ogni fratello e sorella, ai quali siamo chiamati ad annunciarlo. Se avviene, nella Chiesa suona stonato e rompe l’armonia; perché non dovrebbe provocare gli stessi effetti anche nella società civile? Lo scandalo maggiore poi c’è quando l’appartenenza alla comunità cristiana diventa addirittura “cordata” per perseguire o difendere i propri beni e interessi materiali, mascherando l’operazione, in maniera più o meno consapevole, di opera caritativa. È stata stigmatizzata come la “sindrome di Giuda” che con un bacio consegna il maestro per trarne profitto, materiale o ideologico che sia.

don Francesco Zenna

Da Nuova Scintilla n.40 – 30 ottobre 2016