La moglie del Procuratore

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I GIORNI

La moglie del Procuratore

Avevo letto ‘La moglie del Procuratore’ di Elena Bono nei giorni immediatamente seguenti la Pasqua. A dire il vero, avevo iniziato il romanzo qualche settimana prima, ma procedevo a stento tra le chiacchiere degli invitati alla cena in casa di Seneca, i commenti e i servizi degli schiavi e delle schiave e il sopravvenire delle portate. Poi, il balzo. Tutti se ne vanno e Seneca e Claudia rimangono soli e lei racconta, in modo fascinoso e penetrante, la sua vicenda, con quanto accadde a Pilato, suo marito, quella notte, e il tergiversare, il cercare, il giustificare e tutto quanto ne seguì: scrupolo, autogiustificazione, esilio volontario nella campagna mantovana. Il racconto cattura cuore e mente, scuotendo la mozione degli affetti e trascinandola ai piedi dell’uomo detto Cristo: Dio, innocente, crocifisso. Qualche settimana dopo, mi si strabuzzano gli occhi a leggere l’avviso che annuncia il dramma in corso di programmazione ad opera degli studenti dei nostri licei. Quest’anno avrebbero presentato non una delle ‘solite’, ammirevoli e angoscianti tragedie greche, ma proprio il testo, affettuoso e ‘filosofico’, scritto da Elena Bono nel lontano 1956 e riedito dopo la sua morte avvenuta nel 2014.

Evidentemente c’era di mezzo lo zampino del prof. Roberto Vianello, non nuovo a imprese teologiche, date le sue assidue ma rintanate letture di grandi teologi e biblisti. Attendevo dunque con inevitabile curiosità l’evento. L’avvio di serata, nella cornice finemente evocativa del Chiostro del Museo diocesano, saltellava nell’incertezza del ‘piove-non piove’. Poi tutto fila limpido e chiaro fino alla fine. Proprio come il dramma rivissuto dai ragazzi e dalle ragazze del liceo, con un’abilità non puramente tecnica, ma trasfigurata dalla personale immedesimazione con i personaggi. Seneca, moderno ‘sapiente’ illuminista, ha in bocca la soluzione di tutto il dramma umano, o meglio se ne scansa elegantemente. Claudia ha vissuto un incontro troppo grande e decisivo con Gesù, visto appena di spalle eppure vivamente presente ai suoi occhi e al suo cuore. “Io lo vedo”, ripete. Lo vede in una memoria tormentata, che progressivamente si schiude in un riconoscimento amoroso. Sulla scena Claudia viene rappresentata in due figure sdoppiate: quella reale e quella del ripensamento. Le due ragazze che la impersonano si palleggiano l’alternanza dei sentimenti e dei fatti, consegnando infine al pubblico una donna catturata dal fascino del Nazareno, scoperto così grande e vero da essere riconosciuto come Dio. Il pubblico segue in un silenzio perfetto, accendendo palpiti di vibrante commozione. Non è più solo la vicenda di Claudia credente o di Seneca agnostico. È l’uomo e la donna che noi siamo, la nostra ambivalenza e la nostra ricerca. Alla fine, per molti degli spettatori e forse anche per gli stessi attori del dramma, è la consegna nelle braccia di Cristo, Dio, innocente, crocifisso.

don Angelo

Dal settimanale diocesano “Nuova Scintilla” del 19 giugno 2016