Paolo VI e la mia vocazione

Facebooktwitterpinterestmail

Verso la beatificazione di Paolo VI

Paolo VI e la mia vocazione

È iniziata una gara tra i cattolici nell’esprimere a Papa Francesco la riconoscenza per aver decretato la beatificazione del suo predecessore Paolo VI. Anch’io desidero partecipare a questa gara, per la particolare ammirazione che sempre mi ha legato a Papa Montini. La mia ordinazione sacerdotale, si può dire, è nata con la sua elezione al pontificato. Proprio nel 1963, ebbi la fortuna di recarmi a Roma per partecipare al convegno internazionale, indetto per celebrare il 4° centenario della fondazione dei seminari. Era la prima volta che io visitavo la città eterna; avevo iniziato da poco l’ultimo anno di teologia; trovarmi a Roma con settemila chierici, accolti negli ampi spazi destinati ai padri conciliari, fu un privilegio che difficilmente potrò dimenticare.

Ma quel che riportai da quella esperienza, come ricordo indelebile per tutta la mia vita di prete, fu il discorso che Paolo VI rivolse a noi, giovani avviati verso il sacerdozio e rappresentanti dei mille seminari del mondo. È una delle pagine più preziose, che conservo sempre da allora, e che rileggo ogni tanto con rinnovato entusiasmo.

Dopo aver ricordato il motivo della celebrazione, il Santo Padre, con voce amabile e paterna disse:          «Le Nostre labbra si aprono verso di voi – vi diremo, cari Alunni dei nostri Seminari, con S. Paolo -, il Nostro cuore a voi si effonde» (2 Cor 6, 11). Noi vogliamo ora vedere in voi gli esponenti più autentici e più generosi della gioventù, di quella gioventù che, tra le scelte supreme, le quali, nella prima lucida chiaroveggenza della vita e nella prima rivelazione dell’amore genuino, bisogna pur fare, ha scoperto l’ottima scelta, che decide per tutte: ricordate: «…il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto nel campo; l’uomo, che l’ha trovato, lo nasconde di nuovo, e tutto contento va, vende tutto quello ch’egli ha e compra quel campo» (Mt 13, 44). Di quella gioventù, che tra i doni, di cui la vita è prodiga, e di cui la gioventù è avidissima, ha compreso che un dono vale per tutti; ricordate ancora: «… il regno dei cieli è simile ad un ricercatore di perle bellissime; e, trovata una di gran pregio, va, vende quanto possiede, e la compra» (Mt 13, 45). Di quella gioventù, che ha individuato tra tutte le voci, che risuonano intorno a lei e la frastuonano e la incantano, una con un accento singolarissimo, misterioso, ma inconfondibile, grave e soave insieme, mite e potente, una voce piana ed arcana, che risuona dentro, quasi tormentando, nel segreto della coscienza, e risuona fuori, quasi pacificando, nella confidenza di un consiglio sereno e autorevole, d’un richiamo, che, interpretando quella voce interiore, la dice divina, e la dice, sì, proprio rivolta a lei, alla gioventù, che non ha paura delle cose grandi e che teme piuttosto le cattive e le mediocri; una voce, ch’è insieme invito e comando, una voce semplice come un sospiro e profonda come un dramma, la voce di Cristo, che ancor oggi, ed oggi più che mai, dice: «Vieni e seguimi» (Mt 19, 21). Giovani, che Ci ascoltate: avete voi udito quella voce: vieni e seguimi? Essa continua: «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8, 12).

Per me quelle parole furono una rivelazione. Io facevo parte di quella gioventù che, nella sua vita, aveva udito quella voce, per me rimasta misteriosa e inesprimibile e che il Santo Padre così mirabilmente aveva ricordato ed espresso nelle più profonde sfumature con il suo inconfondibile eloquio. Doveva conoscere bene il Manzoni, Paolo VI: le sue parole infatti ci fanno ricordare quelle del cardinal Federico, quando nel celebre romanzo, è a colloquio con l’Innominato. Il Santo Padre passò poi a delineare i contenuti della vocazione sacerdotale. E qui facciamo fatica a pensarlo come un papa timido, enigmatico o addirittura mesto, come certa stampa l’ha definito, fino a giocare sui nomi: “sesto-mesto”. Io l’ho sempre ritenuto un uomo forte e coraggioso, che sapeva trasmettere grandi e audaci ideali, come del resto era solito fare il Divino Maestro. Sempre in quella occasione così parlò:

“La vocazione oggi vuol dire rinuncia, vuol dire impopolarità, vuol dire sacrificio. Vuol dire la preferenza della vita interiore a quella esteriore, vuol dire la scelta d’una perfezione austera e costante in confronto con una mediocrità comoda e insignificante; vuol dire la capacità di ascoltare le voci imploranti del mondo, le voci delle anime innocenti, di quelle sofferenti, di quelle senza pace, senza conforto, senza guida, senza amore, e insieme la forza di far tacere le voci lusinghiere e molli del piacere e dell’egoismo; vuol dire comprendere la dura, ma stupenda missione della Chiesa, oggi più che mai impegnata ad insegnare all’uomo il suo vero essere, il suo fine, la sua sorte, e a svelare agli spiriti fedeli le immense, le ineffabili ricchezze della carità di Cristo; vuol dire, giovani, essere giovani: avere l’occhio limpido e il cuore grande, vuol dire accettare per programma di vita l’imitazione di Cristo, il suo eroismo, la sua santità, la sua missione di bontà e di salvezza. Nessuna prospettiva sulla vita offre ideale più vero, più generoso, più umano, più santo che l’umile e fedele vocazione al sacerdozio di Cristo.

Non è enfasi, figliuoli carissimi, non è retorica, soprattutto non è suggestione, non è bugia, che dà alla Chiesa l’ardimento di parlare così. È la conoscenza che la Chiesa ha dei vostri cuori, delle grazie che il Signore ha riversate nelle vostre anime; è la stima che essa nutre per voi; è la speranza che essa pone nei vostri verdi anni e nei vostri sogni generosi.”

Mancava poco meno di un anno alla mia ordinazione presbiterale e le parole del futuro Beato servirono come ultimo ritocco alla mia lunga formazione, durata tredici anni nel nostro seminario.                                                     (don Alfredo)

 

da NUOVA SCINTILLA 21 del 25 maggio 2014