Risposte al Questionario sulla famiglia

Facebooktwitterpinterestmail

Risposte al Questionario sulla famiglia

La diocesi di Chioggia ha fatto pervenire alla Segreteria della CEI il 7 gennaio scorso – come richiesto – le risposte al Questionario inviato dal papa a tutte le Chiese particolari in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia, elaborate sulla base di quanto emerso nell’ampia consultazione tra pastori e laici nelle parrocchie, nei vicariati e nei vari organismi diocesani. Va sottolineato che questa consultazione “universale” è stata molto apprezzata da tutti, pastori e laici, come segnale di grande novità e di positiva attenzione.

 

 

DIOCESI DI CHIOGGIA

 

RISPOSTE AL QUESTIONARIO DEL DOCUMENTO PREPARATORIO DELLA III ASSEMBLEA GENERALE STRAORDINARIA DEL SINODO DEI VESCOVI

 

Le presenti risposte al Questionario sono state elaborate sulla base dei risultati dell’ampia consultazione avvenuta nelle parrocchie e unità pastorali, nei vicariati e negli organismi consultivi diocesani (Consiglio presbiterale, Consiglio pastorale, Consulta delle aggregazioni laicali). È opportuno precisare che questo testo non contiene prese di posizione da parte della Chiesa locale, ma costituisce semplicemente il resoconto ragionato di quanto conosciuto, percepito, meditato ed espresso da ministri e fedeli nei vari ambiti di consultazione.

 

 

1 – Sulla diffusione della Sacra Scrittura e del Magistero della Chiesa riguardante la famiglia

 

a) Qual è la reale conoscenza degli insegnamenti della Bibbia, della “Gaudium et spes”, della“Familiaris consortio” e di altri documenti del Magistero postconciliare sul valore della famiglia secondo la Chiesa Cattolica? Come i nostri fedeli vengono formati alla vita familiare secondo l’insegnamento della Chiesa?

 

Le tematiche bibliche e il magistero della Chiesa riguardanti la famiglia risultano non bene conosciuti, talora solo per “sentito dire”, e comunque non nella loro sostanziale portata. Spesso ciò è dovuto anche ad una diffusione inadeguata, oltre che ad una recezione “preconcetta”. È apprezzato tuttavia il valore fondante che la Chiesa cattolica attribuisce alla famiglia in riferimento alla comunità sia ecclesiale che civile.

La formazione alla vita familiare avviene per i fedeli in tutta la diocesi attraverso i Corsi di preparazione al matrimonio cristiano, organizzati con metodi diversi ma abbastanza omogenei. Punto di riferimento restano la Scrittura e il Magistero ecclesiale che nei corsi vengono esplicitati e anche approfonditi; ma manca poi una catechesi che continui questa formazione specifica e supporti le coppie nel loro cammino coniugale e familiare. I corsi, in sé, sono frequentati con grande disponibilità dalle coppie e suscitano in esse una sana curiosità e interesse presentando un volto di Chiesa accogliente (e per alcuni inatteso e sorprendente). In genere i giovani esprimono soddisfazione per la partecipazione, per le modalità e per i contenuti proposti: sicuramente un’occasione d’incontro per riavvicinarsi alla comunità ecclesiale, per quanto spesso solo in forma temporanea. Ci sono stati in varie parrocchie e unità pastorali tentativi di portare avanti con continuità incontri successivi al corso, il che si è potuto attuare solo in alcuni casi e per un periodo non molto lungo, tranne qualche eccezione. Un vero accompagnamento avviene di fatto solo nei casi in cui ci sia o si avvii un rapporto personale diretto con un sacerdote, amico, confessore o direttore spirituale, o anche con qualche coppia di animatori del corso.

 

b) Dove l’insegnamento della Chiesa è conosciuto, è integralmente accettato? Si verificano difficoltà nel metterlo in pratica? Quali?

 

Anche dove è conosciuto, l’insegnamento della Chiesa viene accettato integralmente solo da pochi, in genere appartenenti ad associazioni o movimenti ecclesiali; ma spesso, di fatto, non è condiviso, e ancor meno seguito nelle sue esigenti conseguenze, neanche da molti tra costoro. Metterlo in pratica, infatti, nella sua integralità è ritenuto qualcosa di “ideale”, eccessivamente impegnativo e quasi eroico, anzi non compatibile con la realtà quotidiana e le circostanze della vita. Ciò riguarda in particolare i cosiddetti “rapporti prematrimoniali” e le convivenze prematrimoniali, i metodi di regolazione delle nascite, il vincolo “assoluto” della indissolubilità del matrimonio (talora messo impropriamente ma esplicitamente a confronto con la più abbordabile “riduzione allo stato laicale” dei sacerdoti, cui poi è concesso sposarsi); l’esclusione dalla partecipazione diretta ai sacramenti specie quando un coniuge non si ritenga “colpevole”, l’inderogabile esclusione di chi è in posizione “irregolare” rispetto alla dottrina cattolica sul matrimonio dalla possibilità di svolgere il ruolo di padrini e madrine per i sacramenti di iniziazione cristiana, ecc.

Tali difficoltà di comprensione e di attuazione derivano probabilmente dal fatto che ormai manca quella base di cultura cattolica che prima si poteva dare per scontata e dal fatto che anche nell’ambito familiare oggi prevale l’individualismo o comunque una “visione personale” e soggettiva su ciò che sia veramente il bene per sé (ma anche il bene in sé come principio).

 

c) Come l’insegnamento della Chiesa viene diffuso nel contesto dei programmi pastorali a livello nazionale, diocesano e parrocchiale? Quale catechesi si fa sulla famiglia?

 

Al di fuori dei corsi di preparazione al matrimonio cristiano che – come accennato in 1.a) – si svolgono regolarmente in tutta la diocesi – l’insegnamento della Chiesa viene talora diffuso, e raramente approfondito, nei pochi “gruppi di famiglie” attivi in alcune parrocchie (meno di una decina) e sporadicamente negli incontri di alcuni gruppi e associazioni o movimenti ecclesiali, in occasione della pubblicazione di documenti magisteriali o in riferimento al Catechismo della Chiesa cattolica (1997) e al Direttorio di Pastorale familiare per la Chiesa in Italia (1993). A volte viene diffuso in modo confuso e in termini differenti negli stessi corsi prematrimoniali. Non c’è al riguardo una programmazione e una catechesi continua. Nel contesto dei programmi pastorali si è parlato recentemente in diocesi di “Missione famiglia” e quindi dell’attenzione alla famiglia e del ruolo della famiglia nella vita pastorale. I programmi pastorali nazionali, nel loro ampio spettro, offrono al riguardo spunti che però raramente vengono esplicitati e approfonditi. Nelle parrocchie si sta espressamente puntando sulla formazione delle famiglie, orientata soprattutto all’educazione cristiana dei figli. Ma ancora non si vedono nella quotidianità della comunità parrocchiale – se non in qualche caso – la comunione e la testimonianza di vita delle famiglie cristiane.

 

d) In quale misura – e in particolare su quali aspetti – tale insegnamento è realmente conosciuto, accettato, rifiutato e/o criticato in ambienti extra ecclesiali? Quali sono i fattori culturali che ostacolano la piena ricezione dell’insegnamento della Chiesa sulla famiglia?

 

Negli ambienti extra-ecclesiali l’insegnamento della Chiesa sulla famiglia e sul matrimonio è poco o per nulla conosciuto, o lo è in base soprattutto a stereotipi e pregiudizi che generano critiche e lamentele o provocano il rifiuto a priori. Gli aspetti più criticati sono relativi ad alcuni “no” – ritenuto un atteggiamento caratteristico della Chiesa sulla morale matrimoniale -: la contrarietà di principio alle convivenze, la contrarietà generale alla fecondazione assistita, la contrarietà all’uso di metodi contraccettivi (non naturali), la contrarietà assoluta all’aborto, la contrarietà assoluta al divorzio, ecc.

Tra i fattori culturali che ostacolano la ricezione dell’insegnamento della Chiesa si possono elencare, oltre al già citato individualismo, anche il soggettivismo e il relativismo, l’idea di libertà ed autodeterminazione personale, il diritto di autonomia del pensiero e della prassi, il necessario superamento della tradizione intesa come vuoto e frenante tradizionalismo, la fatica o la negazione di un impegno definitivo in un contesto mutevole come l’attuale, il venir meno della “sacralità” del matrimonio un tempo percepita e accordata anche a prescindere dal fattore religioso, la diffusione di una cultura e di una letteratura contrarie ai principi cristiani, l’influsso generalizzato dei nuovi media nella loro componente antiecclesiale o semplicemente libertaria (ma anche immorale o amorale), l’affievolirsi del senso di appartenenza, oltre che, evidentemente, l’affievolirsi della fede.

Ma, a questo riguardo, è il caso di segnalare punti problematici di riflessione, sorti anche all’interno della nostra comunità ecclesiale. C’è l’impressione che la gerarchia non si renda conto della complessità della realtà umana e codifichi leggi inadeguate, tanto che la gente percepisce e vive, in questo ambito, una sorta di distanza dalla Chiesa come magistero. Senso di distanza dovuto, probabilmente, anche al fatto che non lavoriamo abbastanza nella formazione perché le coscienze maturino nel corretto senso di appartenenza. Bisogna però dire che – in genere – nessuno, almeno tra quanti celebrano il matrimonio cristiano, parte senza l’intenzione di restare insieme “per sempre”. Sono poi le complicazioni della vita e della convivenza che sopraggiungono ad alterare l’unione, e talvolta in termini insostenibili, tanto che diventa un “bene”, appunto, la separazione. Ma anche in questo più comune e diffuso caso, occorre osservare che la Chiesa ammette la partecipazione dei separati ai sacramenti poiché ritiene che la rottura avvenga solo in caso di divorzio e di nuova unione (esplicitamente con matrimonio civile o con eventuale conclamata convivenza, che impedisce comunque l’accesso ai sacramenti), mentre la rottura a livello soggettivo di ambedue c’è già stata e, in genere, in forma irreversibile. Sembra dunque esserci, anche qui, uno stacco tra coscienza e legge.

Ci si domanda perciò – sia come dubbio che come difficoltà – se il discorso sulla indissolubilità assoluta, così come viene portato avanti ufficialmente dalla dottrina cattolica, sia proprio del tutto “irreformabile”. C’è l’impressione che in questo ambito la Chiesa assuma un atteggiamento di maggiore durezza e rigidità rispetto ad altri campi. È vivissima e diffusa la percezione – un’attesa ed un auspicio – di un prossimo diverso atteggiamento e di un cambiamento da parte del magistero. Sono evidenti a tutti alcune situazioni di insostenibilità umana coniugale e familiare. Se la Chiesa è di peccatori, potrebbe forse al suo interno riconoscere una sorta di “peccatori di situazione”, un dato di fatto da accogliere e da accompagnare: è una questione che a volte si percepisce in modo drammatico. Ci sarà pure un cammino di conversione che si possa mettere in atto e riconoscere con gradualità. E comunque dobbiamo interrogarci come si possano curare questi malati perché, in una situazione che giuridicamente potrebbe restare “ir-regolare”, non siano sempre “malati”.

Altra aporia importante è quella che emerge considerando la proposta ufficiale della possibilità di accostarsi ai sacramenti solo nel caso che i conviventi irregolari (prima del matrimonio, durante una convivenza con nuovo partner dopo la separazione dal coniuge, o da divorziati risposati civilmente) non abbiano rapporti sessuali. In altre parole si dice loro “Potete vivere insieme purché non abbiate rapporti sessuali”, riducendo così ogni altro valore della comunione di vita alla sessualità fisica e alla genitalità. A livello morale globale questo discorso presenta una debolezza e certamente una problematicità: c’è una discrepanza a livello antropologico. Si tratta dunque di questioni non più rinviabili nel contesto socio-culturale del nostro tempo.

 

 

2 – Sul matrimonio secondo la legge naturale

 

a) Quale posto occupa il concetto di legge naturale nella cultura civile, sia a livello istituzionale, educativo e accademico, sia a livello popolare? Quali visioni dell’antropologia sono sottese a questo dibattito sul fondamento naturale della famiglia?

 

Il concetto di “legge naturale” in sé rischia di essere non ben definito e non è sempre condiviso, in quanto legato a determinate culture (come ad esempio quella occidentale) e a determinati contesti religiosi (come ad esempio quello biblico). Tanto più che va espandendosi la convinzione che “naturale” può essere anche qualcos’altro rispetto a quanto è sempre stato ritenuto e accettato: tutto ciò che corrisponde alla “natura” in senso lato e quindi tutto ciò a cui si è portati, indipendentemente da determinate norme o tradizioni. Il concetto stesso, dunque, andrebbe ripensato e ridefinito, anche a livello filosofico, liberandolo – per quanto possibile – da elementi culturali e religiosi. Di fatto non se ne parla, se non in rare occasioni e tra addetti, sia a livello istituzionale che accademico. Anche a livello educativo vi si fa riferimento con riserva, nel rispetto preminente della libertà delle persone. A livello popolare un tale concetto non fa parte del patrimonio di base e non è direttamente affrontato o discusso. Quanto al “fondamento naturale” della famiglia – anche se per la gran parte condiviso – si vanno diffondendo antropologie (teoriche e pratiche) che tendono a scalzare i principi fondamentali della distinzione maschio-femmina, del compito della procreazione con annessa responsabilità educativa, della definitività di un legame sancito per sempre, ecc.

Il concetto di “legge naturale”, comunque, si presenta molto complesso ed andrebbe ripensato. Anche la omosessualità e altre forme di “devianza”, infatti, sono considerate da molti come “naturali” e comunque espressione della “natura umana”. Non basta quindi il concetto di “legge naturale” a difendere il matrimonio.

 

b) Il concetto di legge naturale in relazione all’unione tra l’uomo e la donna è comunemente

accettato in quanto tale da parte dei battezzati in generale?

 

Nelle diverse realtà territoriali della diocesi è comunemente accettato da parte dei battezzati in generale – e anche dalla mentalità normalmente corrente – che l’unione tra una donna e un uomo derivi dalla “legge naturale”, cioè da un disegno preciso impresso nella natura. Ma, fra la popolazione più giovane, anche all’interno della comunità cristiana, si va diffondendo – per l’influenza dei mass-media e per spontanea condivisione – una cultura del provvisorio, in base alla quale l’unione non deve essere necessariamente tra un uomo ed una donna ed anche il matrimonio-istituzione tra uomo e donna non è più considerato necessario. Tutto si basa sul “volersi bene”, su un impegno d’amore e di corrispondenza reciproca senza bisogno di patti o contratti ulteriori, oppure anche solo sulla concezione individualistica della vita e della felicità, anzi del piacere provvisorio ed occasionale, con l’esitazione o la paura di dover affrontare una relazione permanente.

 

c) Come viene contestata nella prassi e nella teoria la legge naturale sull’unione tra l’uomo e la donna in vista della formazione di una famiglia? Come viene proposta e approfondita

negli organismi civili ed ecclesiali?

 

Nella prassi e nella teoria, normalmente, l’unione fra un uomo e una donna per la formazione di una famiglia non è contestata ma è ancora promossa in generale. Si sta diffondendo comunque una mentalità che – ritenendosi anche più “avanzata” in tema di rispetto di tutti e dei diritti universali – tende a contestarla: essa parte da una visione individualistica della libertà che si è sviluppata con la rivoluzione sessuale insita in quella culturale del ’68, con le contestuali e successive rivendicazioni “femministe” – e comunque con la importante e in sé positiva battaglia per i diritti e la parità della donna – ed ora con la insidiosa ideologia del “gender”. Ci sono valutazioni diverse fatte da credenti e non credenti quando si parla di diritti per le unioni omosessuali, che peraltro sono raramente individuabili attualmente nelle nostre realtà. Volendo riconoscere a queste forme di unione i diritti civili (in parte già riconosciuti dal Codice Civile), si fatica a distinguerle dalla famiglia come è riconosciuta dalla cosiddetta “legge naturale”.

Non ci sono, al riguardo, proposte di riflessione e di approfondimento che tematizzino l’argomento, sia da parte dell’ambiente civile che da quello ecclesiale. In quest’ultimo se ne parla per cenni nel contesto dei corsi per la preparazione al sacramento del matrimonio. A livello civile non ci sono corsi specifici, ma ci si accontenta di ospitare adeguatamente chi chiede il matrimonio solo civile.

 

d) Se richiedono la celebrazione del matrimonio battezzati non praticanti o che si dichiarino

non credenti, come affrontare le sfide pastorali che ne conseguono?

 

Nel caso di richiesta del sacramento del matrimonio da parte di persone lontane dalla pratica cristiana, si richiede che almeno in uno dei due nubendi siano presenti elementi base di fede, e l’impegno a educare cristianamente i propri figli. In gran parte comunque i giovani che chiedono il matrimonio sono non praticanti: si può dire che essi, all’atto della richiesta e nel cammino proposto, sono sinceri nell’affermare di condividere quanto sostenuto dalla Chiesa riguardo al matrimonio, anche se in pratica poi non lo vivono se non superficialmente. Il corso di preparazione al matrimonio cristiano, esigito e programmato in tutto il territorio diocesano, tiene conto della volontà delle persone a parteciparvi: è ormai entrato nella mentalità e nella prassi come premessa necessaria per quanti intendono accedere al sacramento. Verso le persone si dimostra sempre accoglienza, attenzione e rispetto. Si tratta di un cammino insieme, guidato dal sacerdote e sostenuto da alcune consolidate “coppie animatrici”, alla ricerca di una fede che spesso appare perduta o molto affievolita. Viene presentato il matrimonio come un’esperienza vissuta nella fede in Cristo, a partire da una condivisione antropologica e anche amicale: in genere le coppie frequentanti sono soddisfatte della metodologia e del cammino fatto insieme e diventa occasione per entrare in maggiore simpatia con la comunità ecclesiale dopo una prolungata lontananza. Di norma il sacramento non viene negato a nessuno, ci si affida alla Grazia di Dio e all’azione dello Spirito Santo. Le coppie vengono ammesse al matrimonio con il caldo invito a partecipare alla vita sacramentale della Chiesa e tentando un possibile effettivo reinserimento nella comunità cristiana. Certamente, occorrerebbe una presenza più integralmente e assiduamente accompagnatrice da parte della stessa comunità anche attraverso le coppie animatrici dei corsi. La sola cura del “corso per fidanzati”, infatti, risulta insufficiente e rischia di essere un mero palliativo a posizioni consolidate. Anche per questo il corso va revisionato e integrato con altre modalità di accompagnamento pastorale prima e dopo la celebrazione del sacramento.

 

 

3 – La pastorale della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione

 

a) Quali sono le esperienze nate negli ultimi decenni in ordine alla preparazione al matrimonio? Come si è cercato di stimolare il compito di evangelizzazione degli sposi e della famiglia? Come promuovere la coscienza della famiglia come “Chiesa domestica”?

 

Negli ultimi decenni è andato affermandosi e consolidandosi in tutta la diocesi – come esigenza imprescindibile – il corso di preparazione al matrimonio cristiano, cui si è già accennato. In alcune zone si è passati dagli originari sei incontri agli otto o più; la metodologia si è fatta più esperienziale con la partecipazione di coppie animatrici; le tematiche sono passate da un orientamento più sociologico ad uno più formativo anche a livello teologico-spirituale. Si invita a frequentare il corso non nell’immediata vicinanza al matrimonio come mero obbligo, ma con un certo anticipo per viverlo come una fase di crescita personale e reciproca di coppia che intende seguire un “per-corso”, cioè un cammino che continua. Si cerca di far percepire che la vita cristiana è un continuo discepolato dietro a Gesù nella Chiesa: dunque un cammino di formazione permanente che richiede una catechesi globale e continua. Occorre rilevare però la difficoltà che si riscontra tra i giovani nel prendere decisioni a lungo termine: anche se consapevoli che il matrimonio cristiano è “per sempre” e partendo con questa intenzione, è già messa in conto la fragilità e la possibilità di insuccesso, anche in base al contesto esperienziale in cui si è immersi; la decisione sembra più solida quando c’è una certa appartenenza ad un gruppo o associazione. Il rinvio sine die del matrimonio o l’esplicita rinuncia ad esso sono da attribuirsi anche al timore di esporsi pubblicamente e ufficialmente senza la certezza di riuscire a restare uniti per sempre.

Non mancano coppie di sposi già consolidate che si dedicano a collaborare attivamente e direttamente nei corsi di preparazione al matrimonio testimoniando così il “vangelo della famiglia”. Altri coniugi cristiani sono coinvolti – anche come coppia – nella catechesi, nella liturgia e nella carità; mentre va crescendo la proposta e la sensibilità in ordine al compito di evangelizzazione che spetta ai genitori nei riguardi dei figli.

Il matrimonio viene presentato, nei corsi ma anche nella predicazione, come vocazione nell’amore Cristo-Chiesa, di cui è appunto segno visibile e da cui è illuminato e sostenuto. In questa dimensione si fa spesso riferimento alla definizione della famiglia come “chiesa domestica”, in cui gli sposi sono chiamati alla preghiera, alla comunione reciproca, alla trasmissione della fede e alla testimonianza della carità. La coscienza di famiglia come “chiesa domestica” si può promuovere attraverso l’ascolto della Parola, la ricerca costante della concordia, la corresponsabilità ecclesiale, con l’inserimento in un contesto di catechesi e di formazione globale e permanente.

 

b) Si è riusciti a proporre stili di preghiera in famiglia che riescano a resistere alla complessità della vita e della cultura attuale?

 

Si cerca di proporre stili di preghiera, ma raramente se ne percepisce o constata l’adozione. La proposta ha un certo seguito nei periodi forti dell’anno liturgico, specie nelle famiglie con bambini che seguono il cammino catechistico in cui vengono coinvolti anche i genitori.

Maggiore efficacia e costanza sembrano avere, tra i rispettivi membri, spiritualità e stili di preghiera specifici provenienti da precise esperienze comunitarie o da associazioni e movimenti ecclesiali (Azione Cattolica, Comunione e Liberazione, Rinnovamento nello Spirito, Neocatecumenali, Ordine Francescano Secolare, Comunità missionaria di Villaregia, Gruppi di Padre Pio, altri gruppi di spiritualità mariana con riferimenti vari, compresa l’esperienza locale della “Madonnina” a Cavarzere) che, mentre esplicitano l’appartenenza, sostengono anche nella testimonianza nella chiesa e nella società.

 

c) Nell’attuale situazione di crisi tra le generazioni, come le famiglie cristiane hanno saputo realizzare la propria vocazione di trasmissione della fede?

 

Di fronte ad un atteggiamento che era piuttosto di delega della formazione cristiana delle giovani generazioni alla struttura parrocchiale, si va promuovendo e affermando progressivamente una maggiore consapevolezza della responsabilità diretta dei genitori nella trasmissione della fede e quindi nell’educazione cristiana dei figli. In particolare, la nuova proposta del cammino di iniziazione cristiana – già avviata in alcune comunità parrocchiali da qualche anno, ed ora in tutta la diocesi – mira al coinvolgimento diretto dei genitori presentandosi come cammino di tutta la famiglia – genitori e figli – la quale diventa così non tanto “oggetto”, ma “soggetto” di catechesi. I risultati attuali documentano un’adesione da parte dei genitori che va dal 30 al 70%, con una comprensibile maggiore presenza femminile. Ma non ci si può nascondere che il compito si presenta arduo, anche perché è venuto meno o si è indebolito un po’ dappertutto il ruolo e compito educativo-spirituale delle famiglie nella trasmissione dei valori cristiani e talora anche di quelli civili. Molti genitori – impegnati quotidianamente nel lavoro durante la settimana – colgono la domenica come giorno di evasione per sé e per i figli, e vivono alcuni periodi dell’anno (vacanze natalizie e le lunghe vacanze estive, specie nelle zone balneari) come una parentesi di “esonero” – per sé e per i figli – dalla testimonianza di fede e dalla pratica sacramentale.

 

d) In che modo le Chiese locali e i movimenti di spiritualità familiare hanno saputo creare percorsi esemplari?

 

La consapevolezza dell’importanza della famiglia è presente in diocesi. L’Ufficio di pastorale familiare – sostenuto da una ben formata équipe di coppie animatrici – programma e realizza con metodologia e tematiche collaudate e aggiornate diversi Corsi di preparazione al matrimonio e diventa punto di riferimento anche per gli altri corsi organizzati a livello vicariale e parrocchiale. L’Ufficio propone periodicamente anche, a livello diocesano, incontri di formazione biblica e di spiritualità per coppie. In questo cammino s’inseriscono anche altri movimenti di spiritualità familiare (Comunità Missionaria di Villaregia) e gruppi-famiglie che fanno talora riferimento ad esperienze specifiche (Comunità di Caresto, Spiritualità salesiana o francescana…): si tratta tuttavia di esperienze piuttosto circoscritte che incidono relativamente nella più vasta realtà ecclesiale e territoriale.

È chiaro che una famiglia da sola non può fare molto: c’è bisogno della comunità, di un gruppo, specie nelle aree più abitate o più vaste. Per questo si cerca, almeno in alcune parrocchie o da parte di alcuni movimenti, di creare momenti che possano unire aspetti educativi ad elementi di condivisione, anche conviviale, e di svago. Un ruolo importante in questo senso può essere svolto – e in qualche caso effettivamente viene svolto – dai Patronati e Centri parrocchiali come luoghi di aggregazione non solo dei ragazzi e dei giovani ma anche dei loro genitori, cioè delle famiglie nel loro insieme. Dove è stato già avviato da tempo il nuovo cammino di iniziazione cristiana a impronta catecumenale la partecipazione delle famiglie alle “giornate comuni” è stata confortante, anche se non del tutto soddisfacente.

 

e) Qual è l’apporto specifico che coppie e famiglie sono riuscite a dare in ordine alla diffusione di una visione integrale della coppia e della famiglia cristiana credibile oggi?

 

Esistono in diocesi alcuni “gruppi famiglie” (una decina) che vivono e testimoniano il “Vangelo della famiglia” attraverso un cammino formativo sistematico e/o attraverso la collaborazione nelle attività pastorali, oltre che nel proprio ambito lavorativo e nella società in generale. Più problematica risulta anche per loro la diffusione della “visione integrale di coppia” nell’attuale contesto sociale e culturale, anche se – con i comprensibili limiti – cercano di vivere la loro esperienza familiare in modo credibile. Alcune coppie sono punto di riferimento valido per la catechesi e l’animazione di gruppi e percorsi a vari livelli, anche nella preparazione delle coppie al matrimonio cristiano o dei genitori al battesimo dei figli (al cui ultimo riguardo si sta approfondendo l’impegno delle comunità in tutta la diocesi su indicazione precisa del vescovo). Ma evidentemente occorre un cammino formativo più solido e continuo anche per queste famiglie e coppie generose. Altre coppie cristiane sono impegnate fattivamente e costantemente nell’ambito caritativo, sia nella vicinanza a famiglie bisognose attraverso il soccorso immediato e, soprattutto, attraverso alcuni Centri di ascolto dislocati in diocesi, sia nel sostegno a particolari situazioni di fragilità e di emarginazione tra i minori, tra i disabili, tra i meno capaci o meno fortunati (senza casa e senza lavoro) e tra gli immigrati. Altre coppie – in rapporto con i due Centri di Aiuto alla Vita presenti nel territorio – si dedicano alla promozione della vita con iniziative sistematiche di sostegno di vario tipo a mamme e coppie con infanti in difficoltà.

 

f) Quale attenzione pastorale la Chiesa ha mostrato per sostenere il cammino delle coppie in formazione e delle coppie in crisi?

 

Per le coppie in formazione, come detto, vengono realizzati corsi (e percorsi) di preparazione al matrimonio e si tenta di migliorarne e ampliarne la valenza con maggiore incisività e continuità, con proposte più coinvolgenti in ordine alla crescita spirituale e alla consapevolezza del sacramento che si apprestano a vivere. Si sono avviate anche iniziative formative per coppie che si dedichino alla catechesi degli adulti.

Per le coppie in crisi l’attenzione pastorale si concretizza attraverso il dialogo personale del sacerdote che mira a far capire che la Chiesa s’interessa a loro; si prega a questo scopo in generale anche a livello comunitario. Dove è possibile si incoraggia la tenuta o la ricomposizione della famiglia; mentre dove la rottura definitiva è ormai avvenuta non si calca la mano ma si va incontro a tutti con comprensione. È attivo, al riguardo, da vari decenni il Consultorio familiare diocesano che compie un’azione preziosa (anche se non ne è ancora diffusa capillarmente la conoscenza e la fruizione). Da qualche anno l’Ufficio di pastorale familiare e il Consultorio hanno promosso incontri per padri separati e incontri per coppie di separati e/o divorziati e risposati civilmente (attualmente ancora con piccoli numeri) con la finalità di non farli sentire soli e di renderli invece partecipi di un cammino cristiano di crescita spirituale, pur in situazioni problematiche.

 

 

4 – Sulla pastorale per far fronte ad alcune situazioni matrimoniali difficili

 

a) La convivenza ad experimentumè una realtà pastorale rilevante nella Chiesa particolare? In quale percentuale si potrebbe stimare numericamente?

 

Le convivenze stabili (oltre ad altre modalità: nei fine settimana, o per viaggi e vacanze, che sono ormai prassi per tutti…) sono una realtà rilevante con percentuali diverse ma molto alte (con una media del 70%) in tutta la nostra Chiesa particolare. Non tutte possono dirsi “ad experimentum”, in quanto si sta instaurando anche la prassi di andare a convivere a prescindere da un progetto matrimoniale futuro. Molte delle coppie conviventi, tuttavia, pensano anche al matrimonio (talora solo civile, ma in buona percentuale quello canonico) rinviandolo di alcuni o di molti anni a seconda delle situazioni: in questi casi si potrebbe dire che, di fatto, la convivenza ha sostituito quello che un tempo veniva definito “fidanzamento”. Anche se, dunque, in buona percentuale la convivenza è considerata di passaggio, tende però a procrastinarsi e a diventare in genere un dato di fatto permanente, quando – in alcuni casi abbastanza presto, in altri in seguito – si procede direttamente al matrimonio civile, dal quale raramente (cioè quasi solo quando vi si accede, talora meramente in modo formale, per motivi legati ai benefici sulla casa o simili) si passa a quello religioso. Alcuni ritengono che la convivenza prematrimoniale sia diventata prassi ormai consueta e “naturale” nei giovani per la carenza di conoscenza dei valori della vita cristiana a causa dell’abbandono della frequentazione della chiesa da parte della maggioranza dei preadolescenti e adolescenti, tanto che la fede resta “bambina”; anche da parte della Chiesa – salvo per qualche gruppo – ci sono carenze e incapacità nell’educazione puntuale e progressiva all’affettività, all’amore e al matrimonio.

In merito alle percentuali, si possono rilevare con una certa precisione alcuni dati in base alla situazione delle coppie che partecipano ai corsi di preparazione al matrimonio (ma si tratta di dati parziali, in quanto non è un campione che corrisponda alla realtà totale dei conviventi, alcuni o molti dei quali non chiedono il matrimonio canonico): la percentuale di conviventi tra le coppie partecipanti varia dal 50% di alcune zone all’80% di altre, fino a quella del 100% riscontrata nell’ultimo corso in un vicariato.

In merito alla questione in sé, va osservato che attualmente il matrimonio celebrato non copre più le esperienze affettive delle persone nel lungo arco di età e ci si interroga se non ci siano forme che in qualche modo lo anticipino con graduale liceità (convivenze prematrimoniali). Sembra che l’impostazione cattolica ritenga ancora che il rapporto coniugale sia finalizzato quasi esclusivamente ad avere figli, risultando solo secondario il cosiddetto “bene dei coniugi”, mentre nella relazione coniugale non può non avere una grande parte la componente affettiva nel suo insieme. Si potrebbe forse pensare, anche per il sacramento del matrimonio, ad una sorta di forma “ad experimentum”, cioè un’unione che diventa sacramento maturando progressivamente una consapevolezza di decisione di stabilità e di dono. Appare opportuno che la nuova situazione culturale debba far fare un percorso anche alla teologia sacramentaria, che continua a legare imprescindibilmente i rapporti sessuali al matrimonio-sacramento. Ci si interroga pastoralmente, anche, se in tal modo non si stanno caricando sulle spalle della gente pesanti fardelli che la componente ministeriale o consacrata della Chiesa non porta affatto.

 

b) Esistono unioni libere di fatto, senza riconoscimento né religioso né civile? Vi sono dati statistici affidabili?

 

Tenendo già conto di quanto si è detto sopra per le numerose convivenze non “ad experimentum” e volendo distinguere quest’altra tipologia di “unioni libere” in senso lato, si può dire che ne esistono in percentuale contenuta: si tratta di un numero ridotto di coppie, di solito molto giovani o più adulte, ma particolarmente problematiche. Al riguardo, non sono però rilevabili dati statistici adeguati o affidabili.

 

c) I separati e i divorziati risposati sono una realtà pastorale rilevante nella Chiesa particolare? In quale percentuale si potrebbe stimare numericamente? Come si fa fronte a questa realtà attraverso programmi pastorali adatti?

 

La percentuale complessiva è stimata intorno al 25-30%; ma all’interno del dato – che si registra in occasione della richiesta dei sacramenti per i figli o durante il loro cammino catechistico – mentre abbastanza rilevante risulta il numero di coppie separate, piuttosto inferiore è quello dei divorziati risposati. Dai registri dei battezzati, inoltre, si constata che la situazione dei genitori che chiedono il battesimo per i figli è in buona parte “irregolare” – talora anche dal 50 al 70% – comprendendo in tale definizione, oltre ai separati e/o divorziati e risposati, anche le coppie conviventi o unite solo civilmente.

Non ci sono programmi pastorali specifici o interventi particolari nelle parrocchie, ma si fa fronte a questa realtà con un’accoglienza cordiale e misericordiosa, con un rapporto sobrio e cercando di non calcare la mano, pur dovendo ribadire l’attuale dottrina cattolica sul matrimonio (in particolare anche con la sofferta, ma ritenuta doverosa, esclusione di persone in tali situazioni dal ruolo di padrino o madrina).

A livello diocesano si è iniziata un’embrionale esperienza di gruppo per i “padri separati o divorziati” e una serie di incontri di spiritualità per coppie separate o ricostituite.

 

d) In tutti questi casi: come vivono i battezzati la loro irregolarità? Ne sono consapevoli? Manifestano semplicemente indifferenza? Si sentono emarginati e vivono con sofferenza l’impossibilità di ricevere i sacramenti?

 

Mentre tra i giovani conviventi (ad experimentum o no) si vive con sostanziale tranquillità la propria situazione, condivisa dalla mentalità corrente; nelle altre coppie “irregolari” si riscontra spesso una “serenità morale” e di solito una appagante soddisfazione nell’aver superato la fase di conflittualità con il coniuge precedente. A livello morale non viene rilevata – al di là di qualche raro caso – una sincera sofferenza, ma solo un disagio esteriore per le regole “imposte” dalla Chiesa rispetto all’accesso ai sacramenti. Il disagio può esprimersi anche in umana sofferenza nell’occasione dell’ammissione ai sacramenti dei figli, specie per la prima comunione (e piuttosto meno per la cresima).

Il grado di consapevolezza si commisura alla conoscenza della dottrina della Chiesa – che spesso è molto scarsa; è diffusa, ad esempio, l’erronea opinione che anche i “separati” in quanto tali non possano accostarsi ai sacramenti… – e la sofferenza è percepibile in quanti normalmente partecipano alla vita comunitaria ecclesiale, mentre per la gran parte si tratta di una “emarginazione” percepita esteriormente con un certo fastidio (o anche con un certo rassegnato realismo), ma che incide molto relativamente o per nulla nella loro vita. Ci si deve domandare anche, al riguardo, se molti siano consapevoli – o continuino ad esserlo – che il matrimonio è “sacramento”, cioè segno dell’amore di Cristo e della Chiesa.

 

e) Quali sono le richieste che le persone divorziate e risposate rivolgono alla Chiesa a proposito dei sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione? Tra le persone che si trovano in queste situazioni, quante chiedono questi sacramenti?

 

Di solito i sacramenti vengono richiesti in vista della prima comunione dei figli, molto più raramente per un’autentica sofferenza a causa della distanza dalla pratica sacramentale. In questi ultimi casi si tratta di persone che hanno sempre partecipato e continuano a partecipare alla vita della comunità, nelle quali è forte il desiderio di ricostruire la propria vita e di ritornare anche alla normalità sacramentale. Ci sono anche casi di persone che, pur in situazione irregolare, magari facendo appello alla propria coscienza, si accostano liberamente all’Eucaristia, eventualmente anche in altre parrocchie (in genere non alla confessione, in quanto consapevoli di essere “non assolvibili”; oppure in qualche caso si mettono alla ricerca di confessori più accomodanti). Altri contestano di non poter essi ricevere l’Eucaristia quando alcuni “regolari” (rispetto ai quali si ritengono anche “migliori”) si accostano ad essa senza mai confessarsi da anni. Per le coppie irregolari è anche da notare una diversa sensibilità e situazione di coscienza del coniuge che è abbandonato (o si ritiene “vittima”) e cerca o ha cercato di riformarsi una famiglia – per quanto “irregolare” – rispetto al coniuge cosiddetto “colpevole” (o che abbandona).

 

f) Lo snellimento della prassi canonica in ordine al riconoscimento della dichiarazione di nullità del vincolo matrimoniale potrebbe offrire un reale contributo positivo alla soluzione delle problematiche delle persone coinvolte? Se sì, in quali forme?

 

C’è poca conoscenza – e anche molto pregiudizio – in merito alla pratica canonica di dichiarazione di nullità. Si richiedono snellimento e semplificazione in ordine alla questione economica, agli interrogatori, ai vari adempimenti. Soprattutto sembra pesare la richiesta di testimoni e il dover rivangare fatti dolorosi e incresciosi.

Certamente uno snellimento della pratica potrebbe offrire un positivo contributo alla soluzione delle problematiche di quelle persone che sono interessate a questo iter (ma molti non vi accedono o perché non interessati o perché preferiscono non affrontarlo per le ragioni suddette). Anche la riduzione o eliminazione degli aggravi economici potrebbe costituire un incentivo. Si renderebbe necessaria però una maggiore informazione e istruzione in merito prima della celebrazione del matrimonio; andrebbe svolto con maggiore attenzione e distensione anche il cosiddetto “esame dei nubendi” (aggiornando le domande – e la modalità di risposta – in modo più adeguato alla situazione socio-culturale e religiosa attuale). Ma si nota che in tutta l’impostazione dell’iter matrimoniale ufficiale, e poi dell’eventuale ricorso per la dichiarazione di nullità, si cura molto la prassi giuridica, avendo meno cura invece del più necessario accompagnamento personale, umano e spirituale.

Tra le altre indicazioni per uno snellimento si ipotizzano: la riduzione del processo canonico ad un solo grado (diocesano o interdiocesano); un maggior valore accordato alla coscienza personale dei ricorrenti; un allentamento dei vincoli e dei freni che si frappongono alla sentenza; una volta constatata la forte possibilità di non validità del vincolo, proseguire rapidamente, soprattutto nei casi di violenza praticata o temuta; un riconoscimento più esplicito delle situazioni in cui uno dei coniugi è incolpevole o abbandonato; una maggiore considerazione dell’attuale fragilità delle persone e quindi dell’incapacità o immaturità nell’accedere ad un impegno definitivo.

Oltre a snellire la pratica di dichiarazione di nullità, c’è chi suggerisce di “snellire” preventivamente anche il numero delle celebrazioni matrimoniali sacramentali, avendo la pazienza e il coraggio anche di far capire ad una coppia che non è adatta o non è pronta per un tale passo.

Vanno anche fatti conoscere meglio, e meglio attrezzati e sviluppati, i Centri diocesani di Consulenza familiare (e, in un contesto più ampio, quando l’accoglienza di un figlio costituisse un problema per la coppia, anche i Centri di Aiuto alla Vita), che possono svolgere un importante ruolo nell’accompagnamento e nell’orientamento a diversi livelli e nelle diverse fasi o situazioni.

Inoltre, è il caso di osservare che la celebrazione di matrimoni solo religiosi – in genere tra pensionati – ha indicazioni e prassi differenti in senso positivo o negativo da diocesi a diocesi: talora manca un’opportuna elasticità, forse anche a causa di qualche abuso, che però non dovrebbe incidere sugli altri casi più ragionevoli.

Infine – in modo più radicale – è da considerare quella che secondo alcuni risulta una sorta di incongruità della formula del “matrimonio canonico” o “concordatario” in quanto impropria commistione di un atto civile e di un gesto sacramentale: probabilmente andrebbe ripensato e superato, poiché l’indifferenziazione produce confusione, con le comprensibili conseguenze a cui assistiamo a vari livelli.

 

g) Esiste una pastorale per venire incontro a questi casi? Come si svolge tale attività pastorale? Esistono programmi al riguardo a livello nazionale e diocesano? Come viene annunciata a separati e divorziati risposati la misericordia di Dio e come viene messo in atto il sostegno della Chiesa al loro cammino di fede?

 

Al di là delle proposte della Chiesa universale, nella nostra Chiesa particolare – come accennato – non c’è una pastorale specifica, ma sono state avviate esperienze di incontro e accompagnamento per i “padri separati o divorziati” e per le coppie di separati o famiglie ricostituite. Nelle parrocchie restano solo il rapporto personale e l’integrazione, per quanto possibile, nella normale vita pastorale, cercando di camminare insieme senza pregiudizi nei confronti di chi già vive situazioni dolorose. A separati e divorziati risposati viene annunciata e concretizzata la misericordia di Dio attraverso la vicinanza dei sacerdoti e della Chiesa in generale. Alcuni suggeriscono a queste persone di partecipare intanto all’eucaristia nella forma tipica della “comunione spirituale”.

 

 

5 – Sulle unioni di persone dello stesso sesso

 

a) Esiste nel vostro paese una legge civile di riconoscimento delle unioni di persone dello stesso sesso equiparate in qualche modo al matrimonio?

 

Non esiste in Italia una legge in tal senso, anche se da tempo se ne sta parlando e si sono delineate alcune proposte legislative. In nessuno dei comuni del nostro territorio, d’altro canto, ci sono attualmente forme di registrazione per le unioni civili di persone dello stesso sesso.

 

b) Quale è l’atteggiamento delle Chiese particolari e locali sia di fronte allo Stato civile promotore di unioni civili tra persone dello stesso sesso, sia di fronte alle persone coinvolte in questo tipo di unione?

 

Nei riguardi dello Stato eventualmente promotore di unioni civili la Chiesa locale si conforma agli orientamenti ufficiali della Chiesa italiana, esprimendo il rispetto per le scelte personali, ma manifestando, quando fosse il caso, la contrarietà all’equiparazione di questo tipo di unioni civili al matrimonio, ricordando che esistono già forme giuridiche di tutela di queste ed altre forme di convivenza e ribadendo la necessità di promuovere e agevolare primariamente la famiglia costituita di uomo e donna, senza farla scadere d’importanza rispetto ad altre “famiglie di fatto”. A livello locale non ci sono state per ora circostanze in cui intervenire espressamente in tal senso.

Quanto alle persone coinvolte in questo tipo di unione, non risulta che attualmente ci siano richieste esplicite in tal senso a livello di riconoscimento civile, anche se ce ne sono di fatto alcune, in modesta percentuale. La vita affettiva fra omosessuali viene ritenuta un fatto privato da non sbandierare. Da parte delle giovani generazioni questo tipo di scelta viene ritenuto un valore per le persone che la compiono (“Se sono felici così, va bene…); da parte delle persone più adulte la convivenza fra omosessuali viene tollerata ma è ritenuta in sé un disvalore (mentre in qualche frangia della popolazione suscita ancora disistima e repulsione). Ma raramente ormai si grida allo “scandalo”: si può dire che i mass media hanno preparato o assuefatto la gente a non stracciarsi le vesti di fronte al fenomeno. Lo stile del rispetto per la persona e per le persone è ritenuto in genere una gran cosa e doveroso, anche se l’unione tra persone dello stesso sesso, sia uomini che donne, appare in genere una “stranezza” di non poco conto.

L’atteggiamento della Chiesa locale – come principio o nei pochi casi noti in cui ci sia o venga richiesto un dialogo – è in genere di ascolto, di attenzione e di accoglienza, nel rispetto delle persone, ma non nell’avallo delle situazioni. Certo, la questione si pone anche in termini antropologici e quindi ha bisogno di un approfondimento e di una maturazione nella comprensione del fenomeno e nell’approcciarsi ad esso.

c) Quale attenzione pastorale è possibile avere nei confronti delle persone che hanno scelto di vivere secondo questo tipo di unioni?

 

È necessaria una pastorale che sia, prima di tutto, libera da pregiudizi e che sappia serenamente incontrare le persone dialogando con loro. L’attenzione pastorale si esprime, oltre che nella comprensione e nella misericordia, pure nell’impegno sincero di capire meglio il fenomeno e di considerarlo alla luce anche degli apporti più recenti delle scienze umane. C’è, di fatto, anche un problema culturale, più che solo di situazioni e di persone. Sarebbe necessario accostarsi in maniera seria alla teoria dei generi, considerando che non siamo solo biologia ma anche prodotto di una cultura. Va osservato, inoltre, che spesso, per la morale cattolica, la questione si pone quasi esclusivamente in termini di rapporti sessuali, facendo prevalere questo problema su quello affettivo e di convivenza (tanto è vero che, se convivono senza praticare sesso, ciò è ritenuto lecito). In questo, come nei molti altri casi, emerge la problematicità di quel principio, ritenuto assodato per la morale cattolica, secondo il quale in riferimento al sesto comandamento ogni mancanza è sempre da considerarsi “materia grave”. Similmente entra in gioco l’interrogativo sul valore dirimente della genitalità, cioè se questo tipo di convivenza non vada bene eticamente solo o soprattutto per il fatto che non v’è la possibilità di generare nuove vite. Va dunque riconsiderata l’incidenza della sessualità fisica in una visione più globale di tutta la persona, interrogandosi se sia indispensabile seguire la morale classica secondo la quale, a rigore, queste persone dovrebbero “convertirsi” all’eterosessualità o alla continenza.

Non mancano persone omosessuali adulte che desiderano approfondire e portare avanti il loro cammino di fede. Nei casi di persone omosessuali più giovani – già di per sé portate ad allontanarsi – bisognerebbe lavorare per far loro superare i tanti pregiudizi che nutrono nei confronti della Chiesa. Ci sono al riguardo esperienze pilota in giro per l’Italia (ma non ancora da noi), in qualche caso anche adeguatamente strutturate come offerte pastorali.

 

d) Nel caso di unioni di persone dello stesso sesso che abbiano adottato bambini come comportarsi pastoralmente in vista della trasmissione della fede?

 

Va premesso che la sensibilità diffusa tra la gente risulta contraria all’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali, ritenendo importante e “naturale” che un bimbo possa essere educato e crescere in modo equilibrato riconoscendo, per quanto possibile, nei genitori la figura paterna (maschio) e quella materna (femmina).

Pastoralmente, laddove si creassero situazioni simili – per ora a nostra conoscenza ancora rarissime o quasi inesistenti nel territorio – si ritiene sia importante non discriminare né la coppia, né tantomeno il bambino, cui in ogni caso va sempre data la priorità come cura e attenzione, aiutando i “genitori” a vivere essi, per quanto possibile, la loro fede e a trasmetterla ai “figli” similmente a quanto avviene nelle altre famiglie, eventualmente cercando anche supporti adeguati tra catechiste o altri genitori.

 

 

6 – Sull’educazione dei figli in seno alle situazioni di matrimoni irregolari

 

a) Qual è in questi casi la proporzione stimata di bambini e adolescenti in relazione ai bambini nati e cresciuti in famiglie regolarmente costituite?

 

La proporzione è stimata diversamente da zona a zona: una media sembra attestarsi – ad esempio su dieci ragazzi – intorno a 3-4 bambini e adolescenti che vivono con famiglie irregolari rispetto ai 6-7 in famiglie regolarmente costituite; ma la proporzione è tendente a salire in favore dei primi, tanto che si ha l’impressione di scoprirne sempre nuovi casi, mentre questo tipo di situazioni sembrano essere considerate sempre più “normali”. Basti pensare che tra i battezzati degli ultimi anni in molte parrocchie la percentuale dei neonati in famiglie irregolari (a vario titolo) risulta di circa il 50% e non di rado, ormai, alquanto superiore.

 

b) Con quale atteggiamento i genitori si rivolgono alla Chiesa? Che cosa chiedono? Solo i sacramenti o anche la catechesi e l’insegnamento in generale della religione?

 

I genitori chiedono normalmente i sacramenti e la trasmissione dei valori-comportamenti morali insegnati dalla Chiesa, verso la quale a questo livello permane una sincera fiducia; pur considerando che i sacramenti stessi (battesimo, confessione, comunione, cresima) costituiscono anche una componente della cultura di appartenenza e spesso la richiesta avviene quasi automaticamente con la frequenza scolastica o per tradizione pacificamente accettata (perché si è sempre fatto così…). Viene chiesta contestualmente anche la catechesi, seguita abbastanza fedelmente, come pure l’insegnamento della religione in generale (anche l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole – Irc – viene richiesto in percentuali superiori al 90-95%).

 

c) Come le Chiese particolari vanno incontro alla necessità dei genitori di questi bambini di offrire un’educazione cristiana ai propri figli?

 

Il tentativo in atto di rinnovamento della catechesi tende a coinvolgere i genitori come educatori e in quanto cristiani chiamati a un loro specifico cammino di fede. A questo livello e in questo contesto non c’è particolare distinzione di impegno, in via generale, tra coppie irregolari e coppie regolari, a meno di particolari disagi della singola coppia non ancora (o non più) ben assestata. Non c’è distinzione, evidentemente, neanche da parte dei sacerdoti e dei catechisti poiché si è ben felici di accogliere tutti, anzi con un’attenzione particolare proprio per chi ha qualche problema familiare (o di altro tipo). Bisogna sempre cercare di conoscere – pur con discrezione – le situazioni e avere un occhio di riguardo per questi bambini, cercando che le famiglie stesse non vivano la propria situazione come una colpa: genitori e figli, in genere, portano delle ferite che spesso non sono sanate ed avrebbero bisogno di cordiale sostegno e consolazione, anche attraverso occasioni di accoglienza.

 

d) Come si svolge la pratica sacramentale in questi casi: la preparazione, l’amministrazione del sacramento e l’accompagnamento?

 

La pratica sacramentale per i figli di famiglie irregolari non differisce in linea di massima da quanto proposto a tutti i ragazzi, tenendo conto delle maggiori difficoltà in relazione ai tempi disponibili, ai luoghi differenti di riferimento dei ragazzi e non di rado a particolari turbamenti psicologici. Normalmente catechesi e pratica sacramentale seguono la forma ordinaria, sia quanto alla preparazione e all’amministrazione dei sacramenti, sia per l’accompagnamento; non si potrebbe pensare ad una distinzione e diversificazione di cammino, appunto per non discriminare. Piuttosto, come accennato, ci sarà una particolare vicinanza e attenzione verso chi vive questo tipo di disagio, ma evitando ogni forma che possa essere percepita come assillante.

 

 

7 – Sull’apertura degli sposi alla vita

 

a) Qual è la reale conoscenza che i cristiani hanno della dottrina della Humanae vitae sulla paternità responsabile? Quale coscienza si ha della valutazione morale dei differenti metodi di regolazione delle nascite? Quali approfondimenti potrebbero essere suggeriti in materia dal punto di vista pastorale?

 

La dottrina della “Humanae vitae” sulla paternità e maternità responsabili dai più non è conosciuta. Se ne parla certamente nei corsi di preparazione al matrimonio ma con minore insistenza in questi tempi, nei quali il costume e gli stili di vita sono profondamente cambiati, anche perché molte coppie già convivono prima del matrimonio o sperimentano il dono della genitorialità in un rapporto non ancora stabile.

I differenti metodi di regolazione delle nascite non sono conosciuti con precisione: vengono adottati in genere, normalmente, quelli chimici o meccanici, senza conoscerne – e senza curarsi di conoscerne – le implicazioni morali; mentre i metodi naturali, sui quali c’è ancor minore conoscenza, sono ritenuti inadeguati o troppo impegnativi (e con alta percentuale di “rischio”). Nei corsi di preparazione al matrimonio vi si accenna ancora, ma il discorso viene seguito con poca convinzione e con ampie riserve.

 

b) È accettata tale dottrina morale? Quali sono gli aspetti più problematici che rendono difficoltosa l’accettazione nella grande maggioranza delle coppie?

 

La dottrina morale dell’Humanae vitae è accolta per quanto riguarda la relatività del numero dei figli e la responsabilità nella decisione meditata di accogliere la vita, ma non nello specifico morale dell’autocontrollo (con l’astinenza periodica e l’esclusivo ricorso ai metodi naturali, con la connessa condanna degli altri metodi contraccettivi, ecc.). Gli aspetti più problematici sono legati all’ormai diffusa pratica sessuale extra-matrimoniale (prima del matrimonio, sia da fidanzati che da conviventi), ritenuta dai più, se non da tutti, come ovvia e necessaria; o anche per il diffondersi dei rapporti in età molto giovane (avallati dagli stessi genitori che si preoccupano a volte solo di suggerire la “precauzione” consistente nell’uso di preservativi e anticoncezionali) con o senza impegnativi legami affettivi, o comunque in qualsiasi altra avventura con o senza legame amoroso…: tutti casi che implicano quindi di evitare con la maggior sicurezza possibile gravidanze indesiderate. Nei casi di maggiore responsabilità e serietà morale le difficoltà possono essere legate anche all’obiettiva necessità di limitare il numero di figli con quello che si ritiene il metodo più sicuro; oppure anche a obiettive situazioni di salute e ai suggerimenti prudenziali dei medici.

Discorso a parte merita il tema dell’aborto, a riguardo del quale c’è un sostanziale accordo di principio sull’opportunità di evitarlo, ma anche la massima comprensione e giustificazione per chi invece vi ricorre; oltre che, in genere, la diffusa convinzione della sua quasi ineluttabile necessità nei casi più problematici (malformazioni, violenze, ecc.).

 

c) Quali metodi naturali vengono promossi da parte delle Chiese particolari per aiutare i coniugi a mettere in pratica la dottrina dell’Humanae vitae?

Nei corsi di preparazione al matrimonio viene ancora segnalata la “coerenza morale” dei metodi naturali e la loro fondamentale validità anche a livello formativo per la coppia. Il metodo naturale più suggerito attualmente, ritenuto più affidabili rispetto ad esempio all’Ogino-Knaus, è il sinto-termico Roetzer (fondato, com’è noto, sulla misurazione della temperatura basale e sull’analisi del muco cervicale), per l’illustrazione del quale sono stati attivati anche corsi specifici a livello diocesano, seguiti da un modesto numero di coppie. Bisogna comunque sempre tener conto del “bagaglio umano” delle persone, di quale sia da parte di ciascuno dei due partner il rapporto con il proprio corpo e con quello dell’altro, chiedendosi anche se per una determinata coppia – e per quei ritmi specifici- siano effettivamente utili i metodi naturali.

 

d) Qual è l’esperienza riguardo a questo tema nella prassi del sacramento della penitenza e nella partecipazione all’eucaristia?

Nella prassi del sacramento della penitenza (che, peraltro, è sempre meno frequentato) e nella partecipazione all’eucaristia (normalmente frequentata con l’accostamento alla comunione soprattutto dalle donne; e da molti altri solo nelle grandi occasioni, cioè nelle feste annuali o per i sacramenti dei figli) l’uso dei vari mezzi contraccettivi – a parte i ben poco usati metodi naturali – non sembra essere ritenuto ostativo (non viene quasi mai confessato e non sembra trattenere dall’accostamento alla comunione), se non in casi di coscienze più delicate. D’altra parte occorre chiedersi se tale atteggiamento, che può apparire superficiale, non sia frutto anche di una certa ignoranza o, semplicemente, anche di una specie di “laica innocenza”. La domanda è su come si possa contemperare una tradizione morale molto rigida con un annuncio evangelico che tenga conto delle persone e delle coscienze. Sembra di percepire una sorta di “sensus fidelium” che va verso un alleggerimento del “senso del peccato” in questo ambito.

 

e) Quali contrasti si evidenziano tra la dottrina della Chiesa e l’educazione civile al riguardo?

 

L’educazione civile nella nostra società – a partire dalla scuola e da altre agenzie educative, compresi i mass media – si limita a mettere in guardia dai rischi di gravidanza o di malattie e non si cura in genere di principi etici, per cui facilmente entra in contrasto con la dottrina della Chiesa: o non ne tiene conto, oppure la avversa implicitamente o esplicitamente, talora delegittimandola o irridendola. Nei mass-media in particolare – sia alla televisione che nei siti internet e nei social-network, tranne sporadiche eccezioni positive legate in genere ai nostri mezzi e siti – emergono con particolare virulenza teorie e pratiche incompatibili con la dottrina morale della Chiesa, che influiscono notevolmente nella mentalità corrente, sia tra gli adulti che tra i giovani, o addirittura ragazzi e bambini.

Per quanto riguarda le pubbliche autorità, il principio ispiratore sembra quello della libertà più assoluta nell’ambito privato e nell’esercizio della sessualità, tranne qualche intervento eclatante nei riguardi del fenomeno della prostituzione o nell’ambito delle violenze sessuali. Anche il riconoscimento del diritto all’aborto e i freni posti talora all’obiezione di coscienza rivelano una ricorrente ostilità verso i principi morali della dottrina cattolica. In genere i responsabili della cosa pubblica non ritengono proprio compito intervenire su principi etici nell’ambito dell’educazione sessuale, se non per evitare appunto i cosiddetti “rischi per la salute” in senso generale. È il caso di ricordare, al proposito, che il Ministero della salute, nella campagna contro l’Aids, avalla e promuove nella specifica pubblicità televisiva il presupposto “salute uguale prevenzione col profilattico”. Con uno sguardo benevolo, si può dire che l’educazione civile oggi intende invitare al “buon senso” e in particolare i giovani a proteggersi da eventuali malattie e a non essere irresponsabili, perciò suggerisce il ricorso ai contraccettivi e l’uso del preservativo.

Ma anche molti rappresentanti della stessa Chiesa, negli ultimi decenni, hanno smesso gradualmente di parlare di questi temi di morale sessuale, anche come reazione all’eccesso e all’enfasi di questo discorso nel periodo preconciliare, dando per scontato che le persone e le comunità fossero sature di insegnamenti in materia di sessualità e vita matrimoniale. Di conseguenza le nuove generazioni hanno ricevuto ben poco insegnamento cristiano su queste tematiche, o hanno di tale insegnamento una visione ultramoralistica e utopica che li scoraggia anche solo dal pensiero di provare ad attuarla, restando invece immersi nell’indottrinamento della società odierna, che ha un’idea totalmente distorta della morale cristiana in materia e propone teorie e prassi alternative svincolate da ogni principio etico. Per offrire un insegnamento adeguato ai tempi occorre però anche da parte della Chiesa superare una morale appiattita su una visione antropologica ormai datata, rileggendo il significato della sessualità e il valore della vita matrimoniale alla luce dell’autentico messaggio cristiano.

 

f) Come promuovere una mentalità maggiormente aperta alla natalità? Come favorire la crescita delle nascite?

 

La preoccupazione per la forte denatalità e per l’invecchiamento della popolazione (che è già emersa ed è stata parzialmente affrontata in alcune nazioni, come in Francia ed ora persino in Cina) non sembra ancora essersi diffusa nella nostra nazione, né tra la gente, né tra i governanti. Oltre al principio in sé dell’apertura alla vita – che sembra venir meno anche in non poche coppie giovani, tese soprattutto al proprio “benessere di coppia”, o timorose di affrontare l’esperienza della genitorialità sia per problemi educativi che per questioni economiche o psicologiche – va promossa una mentalità più completa di “famiglia” con annessi diritti e doveri, e mai posponendola rispetto ad altre forme di convivenza o “famiglie di fatto” e “unioni civili”, come invece viene proposto da alcuni. La crescita delle nascite, d’altra parte, può essere favorita da una maggiore stima e sensibilità nei riguardi della “famiglia” come tale e soprattutto poi da politiche familiari adeguate, che da tempo s’invocano in Italia ma che non sono ancora state adottate, né definite, se non con timidi ed inadeguati tentativi. È dunque difficile, anche a livello pastorale, promuovere una mentalità più aperta alle nascite, non solo per la crisi economica in atto, ma anche per una politica nazionale che non favorisce la formazione e lo sviluppo delle nuove famiglie né il consolidamento e lo sviluppo di quelle già costituite.

Per educare le nuove generazioni alla responsabilità nell’accogliere uno o più figli c’è chi ritiene che la comunità ecclesiale dovrebbe riuscire ad accompagnare i giovani nella loro crescita offrendo esempi e testimonianze autentiche d’amore per l’altro, piuttosto che continuare a insistere contro l’uso del preservativo, battaglia che allontana tanta gente, fin da giovane, dalla vita ecclesiale.

Va registrata, infine, la importante opera di sostegno alla vita nascente messa in atto dai due Centri di Aiuto alla Vita esistenti nel territorio diocesano, riconosciuta anche a livello civile, come informazione, vicinanza e supporto alle madri o famiglie in difficoltà, per offrire loro – in molti casi con positivi risultati – un’alternativa di accoglienza della vita rispetto alla scelta dell’aborto.

 

 

8 – Sul rapporto tra famiglia e persona

 

a) Gesù Cristo rivela il mistero e la vocazione dell’uomo: la famiglia è un luogo privilegiato perché questo avvenga?

 

Tale discorso, evidentemente, si riferisce alla fascia dei credenti o ancor meglio a quella più ristretta dei praticanti, mentre non può essere tenuto in considerazione per i molti battezzati che fanno sempre meno riferimento alla vita e alla pratica ecclesiale, anche se si deve continuare a proporlo a tutti. Il tema della vocazione degli sposi all’amore in Cristo e nella Chiesa viene normalmente presentato e approfondito nei corsi di preparazione al matrimonio e viene accolto in linea di principio dalle coppie; ma, di fatto, poi, anche tra i praticanti, non sempre la famiglia viene vista e vissuta come luogo privilegiato per la realizzazione di tale vocazione, presi come si è dalle tante problematiche, preoccupazioni, progetti da rivedere, dialogo di coppia, conflitti intergenerazionali e tensioni quotidiane. Si può dire che è luogo privilegiato per vivere il mistero e la vocazione dell’uomo ogni luogo in cui si respira amore: se nella famiglia questo amore non c’è in pienezza, perché offuscato o sopraffatto da altro, allora neppure la famiglia potrà rivelare e promuovere la partecipazione al mistero di Dio.

 

b) Quali situazioni critiche della famiglia nel mondo odierno possono diventare un ostacolo all’incontro della persona con Cristo?

 

Sono molte le situazioni di criticità per la famiglia nel nostro tempo e quindi molteplici sono gli ostacoli che si frappongono all’incontro personale con Cristo. Tra le altre, il ritmo frenetico che riduce al minimo il tempo che i genitori possono dedicare ai figli; spesso, anzi, il poco tempo a disposizione per stare insieme come coppia e come famiglia viene usato in attività che dividono ulteriormente i membri, come la visione e utilizzo dei mass media o la frequentazione quasi d’obbligo dei supermercati o centri commerciali nei fine settimana. Di grande impatto, oggi, è anche la precarietà del lavoro che crea un disagio nel quale difficilmente si può trovare la serenità del dialogo reciproco ed anche la disponibilità all’approfondimento della vita spirituale: non c’è respiro sufficiente per andare “oltre” e lasciarsi illuminare da valori superiori, dovendo piuttosto preoccuparsi di come sbarcare il lunario e arrivare a fine mese, tanto che la riflessione spirituale o l’approfondimento morale sono ritenuti un lusso che pochi possono permettersi. Anche la mobilità della famiglia, soprattutto per la ricerca del lavoro, rende più difficile l’integrazione in un determinato ambiente o comunità poiché cresce il senso della provvisorietà. Tra gli ostacoli, occorre citare anche la scarsa testimonianza di fedeltà e di coesione da parte di tante cosiddette “famiglie regolari” formate con il matrimonio sacramentale.

Molto problematico si presenta, oggi, anche l’esercizio del compito educativo da parte dei genitori, che si vedono sopraffatti da altre agenzie educative o dal ruolo invadente dei mass media e dall’influenza determinante tra coetanei. Anche il rapporto con il mondo della scuola non si rivela sempre positivo per la crescita globale e armonica delle persone e la stessa comunità ecclesiale fatica a proporre itinerari di formazione adeguati e aggiornati, sia per gli adulti che per le nuove generazioni.

 

c) In quale misura le crisi di fede che le persone possono attraversare incidono nella vita familiare?

 

Ogni evento della vita del singolo membro incide a suo modo e in forme diverse, talora contrastanti, sulla vita di una famiglia. Quindi anche le crisi di fede hanno evidenti ripercussioni nella vita familiare, sia nel rapporto reciproco di coppia che nel rapporto genitori-figli in ambedue le direzioni. La crisi di fede di uno dei due coniugi può determinare nell’uno o nell’altro un disagio crescente in riferimento alla stessa scelta matrimoniale; la crisi di fede dei genitori impedisce una serena ed efficace trasmissione di fede ai figli (ma spesso la fede è già fragile e dunque viene trasmessa debolmente o per nulla) e talora mette in crisi anche rispetto al valore e alla fatica del compito genitoriale; la crisi di fede di uno o più figli porta i genitori credenti e praticanti a interrogarsi sull’efficacia della propria testimonianza e a nutrire ulteriore ansia per le scelte dei figli, creando dunque un circolo vizioso che incide sulla serenità complessiva del nucleo familiare, dove non si riuscisse a maturare la consapevolezza di una maggiore libertà e autodeterminazione dei figli nelle proprie scelte.

 

 

9 – Altre sfide e proposte

 

Ci sono altre sfide e proposte riguardo ai temi trattati in questo questionario, avvertite come urgenti o utili da parte dei destinatari?

 

– Un aspetto da tenere maggiormente in considerazione, sia nel nostro territorio che a livello nazionale, è la presenza piuttosto numerosa di famiglie straniere portatrici di cultura, religione e mentalità differenti (anche se talora tendenti ad integrarsi e conformarsi con quella diffusa). Ci sono tra gli immigrati persone e famiglie di appartenenza o tradizione cattolica, o bizantino-ucraina, o ortodossa; persone di provenienza culturale africana; molti sono di appartenenza islamica e molti di altre culture, tra le quali quella cinese che in genere appare qui senza particolari riferimenti religiosi. S’impongono dunque una maggiore conoscenza e un dialogo con tutti costoro anche per quanto riguarda la vita e l’etica familiare.

 

– Va meglio evidenziato e compreso il ruolo dei mass-media, sia nell’ampia componente negativa che in quella positiva, più circoscritta ma da incrementare e promuovere (sono state segnalate sostanziose catechesi e utili dibattiti su alcune emittenti di ispirazione cattolica; anche i nostri strumenti diocesani possono svolgere un ruolo positivo in tal senso).

 

– Va rilevata la difficoltà di comprensione nel linguaggio adottato a livello etico (sia teologico che filosofico o semplicemente sociale) e quindi la necessità di un adeguamento. Ad esempio, alcuni concetti e termini coniati in un contesto religioso (biblico-occidentale) sono andati acquisendo nella terminologia comune un significato più “laico”: è il caso di “salvezza” (c’entra ancora Cristo?) o di “peccato” (appare più grave picchiare un cane che contravvenire ad altre norme morali…).

 

– Viene richiesto nell’attuale contesto socio-culturale un atteggiamento nuovo: non quello della condanna (o dei “puri” che giudicano), ma un atteggiamento in cui si è disposti a sporcarsi le mani, ad uscire; un cristianesimo di persone che vivono dentro il mondo. Si tratta, dunque, di porsi ancora domande da parte di tutti e a tutti i livelli. Ministri ordinati o laici, dobbiamo avere più coraggio nel raccontare, nel dirsi le cose, nell’interpretare, nell’intervenire.

 

– Non risulta affrontata la impellente questione dell’educazione dei figli (a parte le domande sulle situazioni di famiglie irregolari) in generale, e in particolare l’educazione a livello affettivo. È fondamentale educare intanto i genitori all’accoglienza dei propri figli sempre, anche in situazioni problematiche di questi (quali, ad esempio, i casi di omosessualità emergenti in età adolescenziale). Ed è poi urgente aiutare i genitori al sempre più difficile compito educativo perché sia adeguato all’attuale temperie culturale, sapendo tradurre nel modo migliore i principi fondamentali dell’etica cristiana in dialogo con la cultura e la società.

 

– Appare urgente (come si è accennato in parte nelle risposte) rivedere il principio accolto e trasmesso nell’insegnamento morale cattolico corrente, secondo il quale “riguardo al sesto comandamento tutto è sempre materia grave”.

 

– Similmente (come accennato) occorre interrogarsi sul legame quasi esclusivo e inscindibile che si riconosce alla dimensione sessuale e genitale con il matrimonio in sé o con la convivenza, mentre si rischia di trascurare o sminuire l’importanza delle altre componenti proprie della vita in comune dei partner, quali la condivisione delle persone a livello affettivo, la tenerezza e le tenerezze reciproche, il mutuo aiuto, la corresponsabilità sociale ed ecclesiale, ecc.

 

– Risulta importante anche una riflessione sull’effettiva validità e coerenza del “matrimonio canonico”, in cui vengono fatti coincidere automaticamente il matrimonio sacramento e il matrimonio come contratto civile: ci si chiede se non sia da considerare quanto prima ai fini della maggiore comprensione del sacramento, e di una maggiore serietà nel proporlo e nell’accostarvisi, una più chiara distinzione e dunque un progressivo sganciamento nei termini che si riterranno opportuni.

 

– Si deve, certo, puntare ad un’educazione cristiana di base, di tipo generale: fanno testo al riguardo le esperienze efficaci e coinvolgenti di gruppi associativi e di movimenti. Ad attrarre e ad essere convincente è la proposta della vita bella del Vangelo con le parole e con la testimonianza, anche se permangono tutte le debolezze umane. Gesù ha promesso ai suoi amici il centuplo quaggiù fin da questa vita, insieme a persecuzioni, e dunque una vita bella anche se faticosa. Occorre farlo conoscere e accompagnare le persone a farne esperienza. Senza dimenticare che ciò è frutto di grazia e non un semplice o automatico prodotto di strategia comunitaria o di impegno pastorale.

 

– Non vanno, infine, sottaciuti e trascurati anche alcuni segni di speranza: l’avvio della nuova prassi catechistica che coinvolge maggiormente i genitori (in qualsiasi situazione si trovino); la formazione costante che viene portata avanti almeno in alcuni gruppi giovanili; le proposte e iniziative di movimenti e gruppi, la sana curiosità che i corsi di preparazione al matrimonio sanno destare in molte coppie verso un volto di Chiesa inatteso e positivamente sorprendente.

 

 

da NUOVA SCINTILLA 2 del 12 gennaio 2014