Speciale Incontra – Liturgia

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Speciale Incontra – Liturgia

Editoriale

Triduo pasquale

Liturgia: rinnovamento nella continuità

Il rito della presentazione dei doni

Il mondo liturgico

Un cantiere vivo

Liturgia delle Ore

Liturgia per la vita degli uomini

 

 

 

Editoriale

Siamo abituati a pensare alla Liturgia come a un ambito autoreferenziale della Chiesa: lì celebra i misteri della sua fede, lì si esprime con un suo linguaggio specifico, lì a volte si rifugia, lì conferma se stessa e trova ragioni per difendersi dalle critiche che le vengono mosse in altri contesti. Ne è prova il fatto che piccoli gruppi di nostalgici conservatori arrivano a criticare Papa Francesco per aver sollecitato un cambiamento di stile anche nella modalità con cui viene pensata e proposta la Liturgia: maggiore semplicità nelle vesti e nei riti, immediatezza nel linguaggio e nelle forme, povertà nei mezzi.

La Liturgia è, invece, come recita la Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II: “il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte da cui promana tutta la sua energia” (n. 10). Non un rifugio, quindi, ma il cuore della propria missione; non un apparato rassicurante ma l’espressione di un vissuto, tanto più vera quanto più ne riflette i caratteri, anche umili e imperfetti. Come coniugare insieme il contenuto misterico della Liturgia con questa esigenza di autenticità? Il presente numero di Incontra desidera tentare una risposta, rimarcando che l’azione liturgica è opera di Dio e dell’uomo intimamente congiunti dalla ricchezza simbolica e dal valore sacramentale dei gesti e delle parole che la costituiscono. Il vescovo ci aiuta a vivere il Triduo Pasquale; riflettiamo sul rinnovamento liturgico sulla scorta di Benedetto XVI; puntualizzazioni importanti sulla presentazione dei doni, sull’universo simbolico dei giovani, sulla Liturgia delle Ore e sullo stretto rapporto tra liturgia e vita ci offrono spunti su cui interrogarci.                       (don Francesco)

 

 

Triduo pasquale

Chi partecipa alle celebrazioni del ‘Triduo pasquale’ ripercorre i fatti della Pasqua di Gesù, cioè i medesimi eventi nei quali il Signore Gesù ha dato compimento al mistero della nostra redenzione, dalla cena pasquale alla morte in croce, fino alla Risurrezione.

Questi tre momenti segnano il tempo delle tre celebrazioni maggiori del Triduo pasquale e dovrebbero vedere la più larga partecipazione dei fedeli. La modalità delle celebrazioni del Triduo pasquale (e della Domenica delle Palme) è la ‘drammatizzazione’ degli eventi finali della vita terrena, modalità che rende queste celebrazioni più significative e toccanti. Si pensi alla processione delle palme dove il popolo accompagna Gesù nel suo ingresso solenne nell’area del Tempio acclamandolo come l’Inviato del Signore. Si pensi alla lettura del racconto della Passione fatto da più lettori che sottolineano i dialoghi e le acclamazioni. Si pensi ancora all’esecuzione della lavanda dei piedi, all’adorazione e al bacio della Croce per rivivere la crocifissione e la deposizione di Gesù dalla Croce il Venerdì santo. Infine pensiamo a tutti i riti della Veglia con il fuoco acceso, la preparazione del cero pasquale e l’ingresso in Chiesa al buio con l’accensione graduale delle luci, l’ascolto di alcune pagine della nostra storia della salvezza dopo ciascuna delle quali il popolo è chiamato ad intervenie con salmo e ritornelli (che dovrebbero essere cantati) per esprimere la gioia per l’evento operato da Dio e narrato nella pagina appena ascoltata, fino a giungere all’annuncio della Risurrezione preparato dal canto del Gloria e dell’Alleluia. Segue poi la memoria del nostro Battesimo mediante il quale siamo stati fatti partecipi della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. È questa la ‘drammatizzazione’ cioè questa rappresentazione dal vivo, davanti ai nostri occhi, di Gesù Cristo crocifisso e risorto, come ricorda san Paolo ai Galati (Gal.3,1): “proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso”.

L’originalità dei riti pasquali rispetto alla ordinaria celebrazione dell’Eucaristia in ogni altro giorno dell’anno sta proprio in questa ‘drammatizzazione’.

Tale drammatizzazione richiede tutta la cura e la preparazione dei ministri, lettori, chierichetti, dell’ambiente stesso, e da parte dei fedeli, la partecipazione con calma, lasciando a casa l’orologio, per concedersi la possibilità di rivivere gli eventi centrali e fondamentali del nostro Salvatore Gesù Cristo e della nostra Salvezza.

La liturgia del Triduo pasquale è presentata come un’unica celebrazione dalla Cena eucaristica del Giovedì sera, fino alla Veglia nella notte di Pasqua. Non si tratta di un ‘triduo’ in preparazione ad una festa, ma è la solennità della Pasqua che viene celebrata nei tre giorni, i quali hanno tutti e tre la stessa importanza e solennità liturgica. La continuità e unitarietà delle celebrazioni, tra l’altro è indicata dal fatto che la Messa della Cena del Signore non termina con “la Messa è finita”, ma si esce di chiesa in silenzio; così pure l’azione liturgica del venerdì non comincia con il saluto iniziale e con il Segno della Croce e termina anch’essa senza saluto, in silenzio; infine la Veglia pasquale comincia in silenzio e termina con il saluto finale gioioso: Andate in pace, Alleluia, Alleluia”. Con Cristo anche noi siamo passati dalla morte alla vita, dal peccato alla riconciliazione: questa è la nostra Pasqua.

Ecco perchè le celebrazioni del Triduo non si ripetono per comodità o a favore delle varie realtà ecclesiali, ma tutti i gruppi religiosi e laicali che vivono in una parrocchia si uniscono insieme per la comune celebrazione dei solenni riti del Triduo pasquale. La comunità parrocchiale viene riunita per l’unica celebrazione nella quale tutti sono chiamati ad essere ‘attivi’ con la partecipazione e con la trasformazione e rinnovamento interiori. L’unitarietà e la coralità delle celebrazioni del Triduo pasquale dovrebbero sempre più ispirare, per quanto possibile, anche il senso e la celebrazione della messa domenicale nelle nostre comunità parrocchiali.

Ciascuno celebrerà autenticamente la Pasqua nella misura in cui compirà il suo “passaggio”, cioè sperimenterà nella propria vita una più profonda esperienza del Signore che libera, perdona e salva.

(+ Adriano Tessarollo)

 

 

 

Liturgia: rinnovamento nella continuità

Penso che il modo più corretto per intendere l’affermazione contenuta nel titolo sia quello di riferirsi direttamente ad alcuni passaggi proposti da Benedetto XVI in alcuni autorevoli interventi. Questo ci permette un lavoro serio sui testi del Concilio, sul modo di vivere, di trasmettere e di celebrare i Divini Misteri:

Benedetto XVI alla Curia Romana 22.1.2005

Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. Da una parte esiste un’interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall’altra parte c’è l’“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

All’ermeneutica della discontinuità si oppone l’ermeneutica della riforma, come l’hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d’apertura del Concilio l’11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi.

 

Benedetto XVI ai Vescovi per la promulgazione del Motu proprio “Summorum Pontificum” del 2 luglio 2007.

(…) Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso.

Benedetto XVI, Luce del mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 153.

“Per quel che riguarda la questione concreta [il MP Summorum Pontificum], la liturgia rinnovata del Concilio Vaticano II è la forma valida in cui la Chiesa celebra la liturgia. Ho voluto rendere più facilmente accessibile la forma antica in modo tale da preservare il profondo ed ininterrotto legame che sussiste nella storia della Chiesa. Non possiamo dire: prima era tutto sbagliato, ora invece è tutto giusto. In una comunità infatti nella quale la preghiera e l’Eucaristia sono le cose più importanti, non può considerarsi del tutto errato quello che prima era ritenuta la cosa più sacra. Si è trattato della riconciliazione con il proprio passato, della continuità interna della fede e della preghiera nella Chiesa”.

Benedetto XVI, Messagio al Cardinale Angelo Bagnasco per la LXII Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, 4 novembre 2010.

2. L’autentico credente, in ogni tempo, sperimenta nella liturgia la presenza, il primato e l’opera di Dio. Essa è “veritatis splendor” (Sacramentum caritatis, 35), avvenimento nuziale, pregustazione della città nuova e definitiva e partecipazione ad essa; è legame di creazione e di redenzione, cielo aperto sulla terra degli uomini, passaggio dal mondo a Dio; è Pasqua, nella Croce e nella Risurrezione di Gesù Cristo; è l’anima della vita cristiana, chiamata alla sequela, riconciliazione che muove a carità fraterna.

Cari Fratelli nell’Episcopato, il vostro convenire pone al centro dei lavori assembleari l’esame della traduzione italiana della terza edizione tipica del Messale Romano. La corrispondenza della preghiera della Chiesa (lex orandi) con la regola della fede (lex credendi) plasma il pensiero e i sentimenti della comunità cristiana, dando forma alla Chiesa, corpo di Cristo e tempio dello Spirito. Ogni parola umana non può prescindere dal tempo, anche quando, come nel caso della liturgia, costituisce una finestra che si apre oltre il tempo. Dare voce a una realtà perennemente valida esige pertanto il sapiente equilibrio di continuità e novità, di tradizione e attualizzazione.

Benedetto XVI ai partecipanti al Convegno promosso dal Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, nel 50º anniversario di fondazione, 6 maggio 2011.

Con il termine “profezia”, lo sguardo si apre su nuovi orizzonti. La Liturgia della Chiesa va al di là della stessa “riforma conciliare” (cfr Sacrosanctum Concilium, 1), il cui scopo, infatti, non era principalmente quello di cambiare i riti e i testi, quanto invece quello di rinnovare la mentalità e porre al centro della vita cristiana e della pastorale la celebrazione del Mistero Pasquale di Cristo. Purtroppo, forse, anche da noi Pastori ed esperti, la Liturgia è stata colta più come un oggetto da riformare che non come soggetto capace di rinnovare la vita cristiana, dal momento in cui “esiste un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della Liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa. La Chiesa dalla Liturgia attinge la forza per la vita”. A ricordarcelo è il Beato Giovanni Paolo II nella Vicesimus quintus annus, dove la liturgia è vista come il cuore pulsante di ogni attività ecclesiale. E il Servo di Dio Paolo VI, riferendosi al culto della Chiesa, con un’espressione sintetica affermava: “Dalla lex credendi passiamo alla lex orandi, e questa ci conduce alla lux operandi et vivendi” (Discorso nella cerimonia dell’offerta dei ceri, 2 febbraio 1970).

E’ da augurarsi che queste citazioni diventino occasione di lavoro per noi sacerdoti e per i nostri gruppi liturgici; motivo di crescita nel preparare, celebrare e tradurre nella vita la liturgia celebrata. (a cura di don Alfonso Boscolo)

 

 

Riflessioni e indicazioni tra liturgia e vita

Il rito della presentazione dei doni

E’ forse è il momento della celebrazione eucaristica meno capito dai fedeli perché trascurato dalla nostra catechesi e banalizzato da una insipiente creatività liturgica. Partecipando, in questi anni del dopo-concilio, a varie eucaristie mi sono chiesto che senso avesse portare all’altare, insieme con il pane e il vino, per esempio la bibbia. Ma a che serve allora la prima parte della Messa? Ancora, ho visto qualche volta portare all’altare un cero acceso. Ma sull’altare non ardono già le candele? Ho visto portare all’altare un pallone, o una maglia da calciatore… Ma qual è lo spirito di quel rito? Il messale così recita; “All’inizio della Liturgia eucaristica si portano all’altare i doni, che diventeranno il Corpo e il Sangue di Cristo … E’ bene che la partecipazione dei fedeli [alla presentazione dei doni] si manifesti con l’offerta del pane e del vino per la celebrazione dell’Eucaristia, sia di altri doni, per la necessità della chiesa e dei poveri”. Qui si parla in modo preciso e, se si apre una porta alla fantasia, è solo nella linea delle necessità della chiesa e dei poveri. E’ provvidenziale sostare sul tema “eucaristia e condivisione” in questo preciso momento storico che stiamo vivendo, ovvero la crisi economica che ormai da due anni colpisce la nostra gente. Una crisi nella quale il vangelo chiama noi cristiani a non essere come gli altri uomini e donne che attendono rassegnati che la crisi passi e tutto torni come prima. Questo tempo di crisi economica noi cristiani siamo invece chiamati a viverlo come tempo di krisis, in senso biblico, ossia tempo di discernimento, di decisione, di cambiamento profondo di mentalità, comportamenti, abitudini e soprattutto di modello di vita. Il rito della presentazione dei doni può diventare allora figura e paradigma dell’etica cristiana che, in quanto etica eucaristica, è etica di comunione con Dio e di condivisione con i fratelli e tra di loro soprattutto i più poveri che hanno bisogno di pane come dei diritti fondamentali. Vivendo il legame tra eucaristia e solidarietà con i poveri, il cristiano afferma, senza paure e timori, che l’eucaristia è una fonte di trasformazione sociale. In questa direzione, quel gesto cultuale, che ha una lunga storia prima nel mondo ebraico (Nessuno venga davanti a me a mani vuote – Es 34) e poi cristiano, fa entrare in gioco simultaneamente, e mai l’uno senza l’altro, i doni posti sull’altare del Signore e i poveri con i quali condividere i beni della creazione. Se ci pensiamo, è davvero sconvolgente la parola di Gesù: “Se tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono” (Mt 5,23-24). Il pensiero di Gesù è chiaro: se l’atto cultuale è il momento nel quale il credente fa memoria del primato di Dio nella sua vita, allora questo atto cultuale è autentico e giusto solo se è anche memoria del fratello e di ciò che egli nutre contro di lui. Altrimenti il far memoria di Dio si accompagnerebbe al dimenticarsi dei fratelli, del male che si è fatto loro, e si diverrebbe complici dell’ingiustizia. Quasi a dire: meglio non partecipare all’atto rituale, all’eucaristia, che parteciparvi smentendo nella prassi ciò che si celebra nel rito. Il legame tra eucaristia e condivisione con i poveri è dunque costitutivo della liturgia cristiana, per questo fin dall’inizio il senso dell’eucaristia è esposto al rischio di essere smentito dalla stessa prassi liturgica. Questo è lo scandalo eucaristico denunciato da Paolo ai cristiani di Corinto (1Cor 11) perché alla “tavola del Signore” avviene una scandalosa discriminazione a danno dei più poveri della comunità con i quali i ricchi non condividono il cibo. Il non attendere il fratello povero per celebrare con lui “la cena del Signore” non è una semplice mancanza di cortesia, ma è segno di disprezzo nei suoi confronti, che Paolo definisce umiliare chi non ha niente. Per questo la liturgia dei cristiani è la liturgia del Povero, ossia la liturgia che manifesta un’etica di condivisione e di carità (la colletta per i bisognosi e presentazione dei doni) un’etica di donazione (un corpo dato), un’etica di comunione (la frazione del pane). E’ dunque necessario riconoscere che le nostre liturgie sono sempre esposte al rischio di umiliare i poveri come a Corinto. Per questo essere fedeli oggi al comando etico del culto ebraico, che Gesù ha radicalizzato, significa che dobbiamo costantemente vegliare sulla qualità evangelica dello stile delle nostre liturgie, ossia alle parole come ai gesti, ai luoghi come agli oggetti, alle fogge degli abiti come ai materiali impiegati, perché nella liturgia la forma è sostanza! Vegliare sulla qualità evangelica della liturgia cristiana significa celebrare la liturgia con quello stile che il Concilio ha chiamato nobilis simplicitas: I riti splendano per nobile semplicità (SC 34). L’estetica liturgica è questione di etica evangelica.

don Alfredo Mozzato

 

 

L’universo simbolico delle nuove generazioni

Il mondo liturgico

Ognuno di noi, per comprendere se stesso e il mondo in cui vive, fa propri simboli ed oggetti che lo mettono in relazione con la storia e con le persone. Parlare di simboli significa entrare nel mondo dei sentimenti, delle emozioni, degli affetti, di quelle relazioni umane che hanno lasciato un segno buono o cattivo, positivo o negativo: ogni simbolo porta con sé una carica affettiva che si riallaccia alla memoria affettiva di ognuno. Cosa significa? Non ricordo tutto del mio passato: volti, persone, eventi, esperienze, amicizie; ricordo molto più facilmente le emozioni che ho provato con quelle persone, volti o esperienze. Se da piccolo ho fatto una bella esperienza con gli animali, quando oggi avrò l’occasione di incontrarne uno, questo sarà per me amico perché la mia esperienza personale ha elaborato il “simbolo animale” che non mi fa porre troppe domande quando ne incontro uno e porta con sé quella carica emotiva che ho sperimentato. Ciò significa che i simboli cambiano con il passare del tempo e delle esperienze: simboli di pace possono diventare di guerra, simboli ostili e sgradevoli possono elevarsi a familiarità. E nella liturgia, cosa accade? Se è vero che essa è opera di Dio, è vero anche che i simboli che la rendono presente sono volti, colori, gesti, suoni e volti. Siamo noi che veicoliamo il messaggio divino attraverso la sapiente tradizione e la profetica attualizzazione liturgica. Ad esempio in quaresima tutto si tinge di viola, spariscono fiori e addobbi, non si canta il gloria, si valorizza l’atto penitenziale e si ascolta una parola di conversione e di misericordia. Tutto ciò veicola non solo un messaggio concettuale, ma affettivo e per questo crea e disfa simboli in continuazione. Ora: questi simboli parlano ancora al giorno d’oggi? Sono legati, sono ponti tra la storia di quel giovane e quella comunità e la storia di quel giovane e il Dio di Gesù Cristo? Emozioni e concetti di sobrietà, conversione e misericordia passano ancora attraverso quei simboli o no? Le persone adulte quando sentono il profumo dell’incenso ricordano le celebrazioni “di una volta” delle 5 del mattino o ricordano il funerale di quella persona cara. Quando un giovane sente il profumo dell’incenso comincia a tossire e a coprirsi il naso: lo stesso simbolo dice e non dice. Se i simboli poi hanno il gravoso impegno di mettere in connessione l’uomo con Dio, quali sono le connessioni che il mondo giovanile ha già simbolizzato, con quali ha familiarità, quali sono i sentimenti, le emozioni e i concetti che comunicano Dio? Credo che questa nuova generazione – per alcuni la prima generazione incredula per altri la nuova generazione di santi – impone alla comunità ecclesiale una presa di coscienza dei nuovi sentieri spirituali e delle nuove combinazioni simboliche che a livello liturgico siamo chiamati a mettere in atto. L’unico modo che abbiamo per farlo è metterci in ascolto del mondo giovanile entrando nel loro universo simbolico e attraverso quello ridire e riannunciare il vangelo di salvezza. Imparando da loro sarà molto più semplice poi far sì che anche acquisiscano necessariamente i simboli fondamentali della fede. Lo stesso “simbolo della fede” che ogni domenica recitiamo è frutto dello Spirito di Dio che nella sapiente interpretazione ecclesiale ha fatto propri simboli e concetti del tempo e li ha caricati di contenuti nuovi. Siamo appena all’inizio, lo Spirito che accompagna la storia, ci mostrerà le vie più opportune. (don Damiano Vianello)

 

 

Papa Benedetto e gli interventi sulla liturgia. Un volume che traccia il cammino

Un cantiere vivo

Presentazione del volume Teologia della liturgia, vol 11 dell’opera omnia di Joseph Ratzinger, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, pp 850, Euro 55,00.

Quanto è vasto lo spazio della liturgia? A volte sembra ridursi alla breve contesa della posizione dell’altare, al piccolo slancio di una sempre insufficiente partecipazione del popolo, al corto palleggio della scelta dei canti antichi o moderni, melodici o ritmati. Ogni questione particolare trova adeguata risposta non a suon di battute, ma nell’orizzonte della storia e nella profondità del Mistero. La liturgia è l’opera di Dio. Opus Dei, si dice con la decisione della lingua latina. Tuttavia, Dio non agisce solo con gli angeli in paradiso, ma con gli uomini in terra. Alla comprensione dell’opera di Dio e alla sua attuazione nella vita reale, ci fa strada la conoscenza della storia. Il ‘movimento liturgico’, sorto nell’800 in alcuni monasteri benedettini, si sviluppò nel secolo scorso offrendo le coordinate al Concilio Ecumenico Vaticano II. Non fu un caso, e non si trattò di una semplice manovra opportunistica, se il primo documento del Concilio fu proprio la Costituzione sulla Sacra Liturgia. In questo contesto emergono grandi autori, liturgisti e teologi. Tra coloro che hanno accolto l’ondata del movimento liturgico e l’hanno ritrasmessa, emerge senza dubbio Romano Guardini. La sua lezione è stata cordialmente appresa e rilanciata da Ratzinger, dapprima come teologo, poi anche come Papa. La produzione di Ratzinger-Benedetto sul tema liturgico è abbondante; è stata raccolta insieme nel primo volume pubblicato della sua Opera Omnia, segnalato come 11 nella scansione dei sedici volumi previsti. Nelle ‘indicazioni editoriali’ che ne accompagnano la pubblicazione, è detto che in questo modo “l’Opera Omnia è posta sotto il segno di un conseguente teocentrismo”, vale a dire, “Dio al centro” dell’intera opera di salvezza. Non può essere altrimenti, essendo Dio il Creatore e il Redentore. La liturgia infatti attualizza l’opera compiuta da Dio nella creazione e quindi nella redenzione. Nell’oggi della liturgia e in specie della celebrazione, Dio rende presente a vantaggio dell’uomo tutto quanto Egli ha già attuato in Cristo, principio della creazione e protagonista della storia della salvezza. Questa impostazione è ben presente nei vari interventi inseriti nel volume intitolato ‘Teologia della liturgia’, particolarmente nell’opera più sintetica e conclusiva, ispirata a quella di Guardini, ‘Lo Spirito della liturgia’, dove si considera il rapporto della liturgia con la vita, con il cosmo e con la storia, con il tempo e lo spazio, con la musica e l’arte. Un’altra tematica di fondo è quella che gira attorno ai termini ‘misterium-sacramentum’, che pescano nella storia delle religioni e si attualizzano nei sacramenti cristiani, fino ad invaderne l’intero orizzonte. Dopo il Concilio infatti ci è diventato abituale considerare la Chiesa stessa come ‘sacramento’ di Cristo e Cristo come ‘sacramento’ del Padre: il sacramento è una realtà visibile che rende presente il mistero invisibile. L’Eucaristia è evidentemente il centro della sacramentalità della Chiesa e dell’intera vicenda liturgica. Ampia considerazione è riservata alla domenica come giorno del Signore, all’Eucaristia come sacrificio, come presenza, come celebrazione e come fulcro della missione. È significativo che una parte considerevole del volume affronti questioni che sono diventate di stretta attualità, come la musica sacra e liturgica, e infine si allarghi ai frutti della riforma liturgica dopo il Concilio, evidenziandone le acquisizioni, i limiti, le prospettive. Questo volume di 850 pagine è un cantiere. La liturgia è allo stesso tempo un dato permanente e un’opera sempre viva, come è attuale e presente il mistero della salvezza nella storia degli uomini.   (Angelo Busetto)

 

 

Liturgia delle Ore

Laus perennis et ecclesiae

La Liturgia delle Ore nasce dalla coscienza della Chiesa (laus ecclesiae) di continuare la preghiera offerta da Cristo al Padre, estesa in tutto l’arco della giornata (laus perennis), come continuazione del sacrificio di lode per eccellenza che è l’Eucaristia. È “liturgia” e quindi non più preghiera del singolo cristiano (anche se concretamente uno può trovarsi a celebrarla da solo) ma “voce corale della Chiesa” celeste e terrestre, unita a Gesù mediatore e partecipe della sua stessa preghiera rivolta al Padre. San Benedetto chiama l’Ufficio divino, e in modo più ampio la preghiera, “opus Dei”… di un corpo, con molte membra e non senza il capo; dove il dinamismo di un membro è sempre movimento e vitalità del tutto. È quindi “laus Ecclesiae”, per eccellenza. Dice il testo conciliare: “Quando a celebrare questo mirabile canto di lode sono i sacerdoti e altri a ciò deputati da un precetto della chiesa, o i fedeli che pregano insieme con il sacerdote nella forma approvata, allora è veramente la voce della sposa stessa che parla allo sposo, anzi è la preghiera di Cristo che, in unione al suo corpo, eleva al Padre”. (SC, 84b)

Ed essendo preghiera oraria è anche “laus perennis” (per annos) “essendo il divino ufficio, secondo l’antica tradizione cristiana costituito in modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode di Dio”. (SC, 84a). E qui è bellissimo cogliere l’esercizio della funzione sacerdotale battesimale dei fedeli laici dove ciascun cristiano sigilla l’offerta quotidiana della vita con la preghiera e rende viva la lode facendovi scorrere tra le righe della salmodia (Parola di Dio) il sangue e il sudore del quotidiano. Dove quelle parole “donateci o prestateci dal Signore” ed espresse con la voce (linguaggio umano) o con il canto (linguaggio celeste), sono comunque sempre un noi… un plurale con le ali spiegate verso il trono dell’Altissimo.

Tante volte iniziando o concludendo i nostri incontri non ci è facile proporre un momento di preghiera di qualità; spesso ricorriamo a qualche preghiera della tradizione cristiana improvvisando un cappello iniziale o tiriamo fuori un ritaglio di qualcosa tenuto lì per l’occorrenza o un testo molto simile al pane comune ma senza sale e un filo d’olio, fornitoci in extremis da Google.

Perché non attingere alla Liturgia delle Ore, tesoro della preghiera della Chiesa che santifica il tempo, che ci mette nel circolo della communio sanctorum e ci fa pregustare quel già e non ancora?

Certo ben pregata, con qualità di tempo, seppur contenuto, e sobrietà di gesti, condivisa nei compiti e vestita di piccoli spazi di silenzio sacro dove le parole di Dio risuonano nell’intimo e ravvivano il fuoco dell’amore. Se vissuta così potrà essere via ottima di evangelizzazione… e di comunione ecclesiale. San Benedetto riserva molti capitoli della Regola al Divino Ufficio e comincia a parlarne, stranamente (ma penso sempre di più… a proposito), dopo aver descritto i 12 gradi dell’umiltà!

Mi piace concludere questo mio breve dialogare con voi – e vi ringrazio – con poche righe tratte da un Sermone di Cesario di Arles che dice: “Salmeggiare è come seminare in un campo; pregare è come sotterrare e coprire la semente arando una seconda volta (Sermones, 76,1). Qui la Parabola di Gesù ci aiuta a tirare personalmente le conclusioni.

Citando Bonhoeffer potremmo, dando una sorta di plasticità alla Liturgia delle Ore, coglierla come un sostegno dato alla comunità credente (e dentro ci siamo tutti!) nel vivere nella dinamica della “resistenza e resa”, dove la preghiera dei Salmi la sostengono lungo il corso della giornata a resistere nella fatica e alla sera (a compieta), nella resa, a consegnarsi nelle mani del Signore… il solo capace di trasformare il tempo di calendario (kronos) in tempo di grazia e di misericordia (kairos).     (don Cesare, monaco di città)

 

 

L’identità del popolo che siamo

Liturgia per la vita degli uomini

Il cristianesimo si distingue dalle altre religioni per essere rivelazione del mistero di Dio e non ricerca umana. Nel mostrarsi, Dio ha dettato una modalità del rapporto con Lui. Ci ha insegnato come dialogare con Dio, quali parole proferire e quali gesti compiere. San Paolo scrive nelle sue lettere che noi non sappiamo cosa chiedere e che lo Spirito intercede per noi. Parole e gesti costituiscono la ricchezza della liturgia cristiana. È un patrimonio che si è arricchito lungo i secoli sotto l’ispirazione dello Spirito ed è partecipazione al dialogo di Cristo con il Padre. Nella liturgia siamo ammaestrati e ci viene data forza in una duplice forma. Ascoltando la Parola che Dio pronuncia per il cammino da seguire ed accogliendo il dono del gesto sacramentale, noi veniamo nutriti di fede e speranza ed edificati nella carità della Chiesa. Nella liturgia ci è detta l’identità del popolo che siamo, ci è svelato il volto della misericordia di Dio che si china sulla fragilità degli uomini. È prefigurato il mondo nuovo, Dio tutto in tutti, al quale siamo incamminati nei solchi della storia. La liturgia quindi è scuola. Scuola del rapporto con Dio, conoscenza del mistero di Cristo, fonte e culmine di vita comunionale. Se la Chiesa diventa “visibile” agli uomini in tanti modi – nella cultura, nella carità e nella missione – il luogo dove si fa più intensamente esperienza di Chiesa è la liturgia, atto in cui Dio viene tra noi e noi lo possiamo toccare. Da lì parte tutto, lì tutto arriva. Fonte e culmine di vita cristiana. (don Lino Mazzocco)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

da NUOVA SCINTILLA 12 del 24 marzo 2013