Il linguaggio simbolico

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Finestra sulla liturgia

Il linguaggio simbolico

Il linguaggio liturgico è un linguaggio simbolico, un linguaggio cioè che ha una visibilità antropologica, capace di intercettare la percezione sensibile della persona, ma rimanda a una verità “altra”, anche soprannaturale, com’è nella celebrazione dei sacramenti. L’esempio più facile da comprendere è il gesto dell’infusione nel battesimo dei bambini: il gesto cioè di versare l’acqua sul capo del battezzando. Questo gesto è linguaggio, e linguaggio simbolico, in quanto da una parte parla ai nostri sensi di lavacro, di fonte di vita, di tutti i significati legati all’uso dell’acqua nella natura, e dall’altra ci parla di volontà salvifica di Dio che libera l’uomo dal peccato e gli trasmette la vita divina inserendolo tra i membri della famiglia dei figli di Dio.

 

Il nostro Sinodo del 1988 offre indicazioni concrete perché i fedeli siano aiutati a riconoscere e a comprendere questo linguaggio. Innanzitutto con la formazione liturgica, come abbiamo affermato la settimana scorsa, ma anche con un sobrio accompagnamento soprattutto da parte del presidente della celebrazione e poi di preparati animatori.

Afferma infatti l’art. 140: “Il sacerdote presidente prenda maggiore consapevolezza del suo ruolo di “mistagogo”, di colui cioè che conduce a comprendere e a vivere il mistero; usi un linguaggio ad un tempo sereno ed incisivo, non accentui gli aspetti esteriori dei riti e dei segni, ma lasci trasparire il più possibile il loro simbolismo, introduca e lasci spazio a congrui tempi di silenzio”. Quello del presidente è un ruolo fondamentale in quanto egli si pone, anche visivamente, davanti all’assemblea, e, senza essere il centro del mistero celebrato, ne stabilisce tuttavia lo sviluppo. Si richiede perciò ch’egli sia animato innanzitutto da una grande fede in ciò che celebra e poi dotato di grande capacità comunicativa: frasi brevi, sostantivi appropriati, tono di voce conveniente, postura eloquente; tutto in lui concorre a focalizzare la presenza viva del Signore Gesù, pastore del suo popolo. Si comprende facilmente come un certo gesticolare scomposto, il parlare logorroico, l’esternazione degli stati d’animo personali, la pretesa di spiegare tutto fin nei minimi particolari, l’enfatizzazione di un segno, dal canto ai riti complementari, facilitano la distrazione più che aiutare la concentrazione e la preghiera.

 

 

dal numero 4 del 27 gennaio 2013

L’art. 136 del Sinodo afferma che “con discrezione si possono inserire nelle celebrazioni brevi spiegazioni, condotte con semplicità e chiarezza” anche “da un commentatore”. Sono interventi che, mentre promuovono la ministerialità laicale, favoriscono la consapevolezza ed educano la comunità “a diventare soggetto celebrante; essa deve conoscere ciò che celebra, capire le modalità celebrative e approfondire le esigenze esistenziali che derivano dal mistero celebrato” (art. 137b). È fondamentale, ovviamente, un approfondimento adeguato che preceda la celebrazione, nella catechesi, in qualche para-liturgia, soprattutto per i fanciulli (cfr articoli 135 e 137), ma nulla potrà sostituire l’esperienza diretta quanto a chiarezza ed efficacia.

In sintesi c’è un obiettivo che va cercato, bene espresso in questo orientamento pastorale: “Senza trascurare l’esattezza esteriore del rito, il decoro, la compostezza e la solennità, si renda la celebrazione più vicina ai fedeli, favorendo la spontaneità, valorizzando accoglienza e congedo, usando un tono più familiare” (art. 139). (don Francesco Zenna)

 

 

da NUOVA SCINTILLA 4 del 27 gennaio 2013