Il cambiamento culturale che seguì il disastro. Il ruolo dei missionari.

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Il cambiamento culturale che seguì il disastro. Il ruolo dei missionari.

Intervista a don Antonio Locatelli. Giunse in Polesine pochi mesi prima dell’alluvione, seguito da don Sandro Dordi

Don Antonio Locatelli (al centro nella foto d’archivio), classe 1921, ancora oggi ricorda con incredibile lucidità e dovizia di particolari i molti anni trascorsi in Polesine come missionario, mantenendo vivi nella memoria i nomi dei molti volti incontrati, le vie dei paesi e persino gli idiomi dialettali o i nomi di negozi, officine e botteghe dei quartieri in cui prestò il proprio servizio. Il sacerdote, della nota casa missionaria “Paradiso” di Bergamo fondata da don Fortunato Benzoni, giunse in Polesine pochi mesi prima della terribile alluvione del ’51 seguito poi nel 1954da don Sandro Dordi, appena ordinato sacerdote.

Reverendo, che ricordi ha del bassopolesine quando arrivò come missionario?

“Quando il vescovo di Chioggia mons. Ambrosi chiese aiuto alla nostra casa missionaria per la zona del Delta, la situazione era davvero inimmaginabile. Arrivai il 19 luglio del 1951 con don Pietro Balzi e con il vescovo fummo accompagnati in camioncino a Ca’ Tiepolo con un carico di tre materassi ed alcuni libri. A quel tempo le zone di Ca’ Venier, Ca’ Tiepolo e Tolle non avevano alcun sacerdote, c’era la malaria e gli spostamenti erano possibili soltanto con il traghetto. Ricordo ancora che arrivammo alle 14.30 e la piazzetta era piena di ragazzi perché era un evento che giungesse qualcuno in quelle zone. A Ca’ Venier c’era una piccola chiesa ma il parroco era vicario di tutta la zona e non vi era una comunità religiosa. Imperava il comunismo ed il clima che aleggiava attorno agli uomini di fede era ostile”.

 

Ha qualche ricordo legato all’alluvione e ai soccorsi prestati in Polesine?

“Non posso dimenticare la concitazione ed i diversi tentativi di salvare la gente, soccorrere gli ammalati e portarli fuori dalle case mentre tutti si riversavano su Ca’ Venier e sugli argini. Ricordo quando ordinavo il pane e con la bicicletta passavo a consegnarlo a chi si era messo in salvo. Don Pietro ed io avevamo costruito persino una zattera di salvataggio. Ma l’alluvione è stata una grazia, senza dubbio, perché è stata l’origine di un cambiamento culturale per i polesani: la gente è tornata cambiata, con nuova speranza e desiderio di costruire, fiduciosa perché aiutata da tutti. La povertà, che prima azzerava lo spirito di intraprendenza, ora chiamava il progresso”.

Ha memoria di qualche esempio concreto di questo cambiamento culturale?

“Dopo l’alluvione, abbiamo mosso mari e monti per acquistare a poco prezzo 700 materassi che donammo a molte famiglie di alluvionati. Abituati a dormire sul “pajòn” (letto di paglia), abbiamo scoperto che svuotavano l’imbottitura dei materassi nel fiume per tagliare la stoffa esterna e quindi rivenderla. È stato un lungo percorso ed un insegnamento di fede concreto, di lavoro comune sui campi, che ha fatto sì che il popolo iniziasse a cambiare orizzonte. Un esempio eclatante che mi fa sempre sorridere è il suggerimento di costituire una cooperativa di consumo, accolto dai contadini che lamentavano il costo superiore dei prodotti dovuto al trasporto. Nell’ufficio postale radunai i 50 capi famiglia di Tolle che quindi si accordarono in una cooperativa, chiamata Acli (Associazione Cristiana Lavoratori Italiani)”.

Che ricordi ha di Porto Viro e dell’arrivo di don Sandro Dordi?

“Don Sandro, originario di Gromo San Marino, aveva appena 24 anni ed era sacerdote da meno di una settimana quando decise di partire assieme a me per il Polesine. Arrivammo a Contarina con la mia topolino rossa che aveva avuto molte disavventure nel viaggio da Bergamo. Appena giunse in Polesine, don Sandro iniziò a lavorare, non disdegnando la fatica fisica e le occupazioni più umili. La nostra casa a Contarina era un vecchio casolare con tanto di topi, pipistrelli e zanzare. Ottenemmo presto i permessi dal Ministero della Pubblica Istruzione ed i finanziamenti necessari per iniziare una scuola di Addestramento Professionale a Donada. Fu il primo centro in tutto il Veneto in cui si incominciarono corsi per idraulici, saldatori, falegnami e meccanici. Partì con 120 giovani dai 14 ai 18 anni ma diventarono 240 e più di 500 nel 1958. Prima che nascesse il programma televisivo “Non è mai troppo tardi”, già avevamo proposto dei corsi per istruire gli analfabeti, insegnando loro a leggere e scrivere. Poi, con i punti del detersivo Ava, che una nostra missionaria aveva raccolto, vincemmo in regalo persino un televisore con cui i corsisti potevano seguire il programma ed acculturarsi”.

Come veniva considerato in paese don Sandro?

“Gli anziani lo vedevano come figlio, i piccoli come fratello ed i giovani come un amico. Talvolta qualcuno si stupiva del fatto che un sacerdote lavorasse e si occupasse umilmente della terra o del centro professionale. La fede di don Sandro era grande, lui viaggiava “con la testa in giù e le ruote della bicicletta nel cielo” tanto che, anche quando venne assassinato nella sua ultima missione in Perù dai terroristi del Sendero Luminoso, ha mantenuto il sorriso certo di chi ha fede in Dio e sa dove la propria vita trae fondamento. Gli anziani polesani che lo hanno conosciuto possono ancora ricordare che di notte don Sandro andava a vegliare gli ammalati, faceva aggiustare le scarpe ai ragazzi e provvedeva a pagare il calzolaio, puliva la strada davanti al Centro Sociale o portava borse della spesa a qualche vecchietta che aveva incontrato al mercato”.

Vuole regalare un ultimo aneddoto sulla figura di questo grande missionario?

“È risaputo come don Sandro amasse molto la sua bicicletta. A quel tempo noi sacerdoti dovevamo portare sempre la lunga veste nera che era un chiaro segno di riconoscimento. In un giorno di riposo, don Sandro chiese di poter partire in bicicletta per Madonna di Campiglio, un viaggio lunghissimo ed avventuroso, tanto che lo dispensai dall’indossare la tunica che lo avrebbe intralciato nel pedalare per così tanto tempo. Quando tornò a sera tardi raccontò di essersi quasi vergognato quella mattina perché, mentre si stava riposando dopo il tragitto davanti ad una chiesa ed indossando soltanto una maglietta e dei pantaloni corti, due ragazzi si domandarono se fosse un prete. Lo avevano riconosciuto infatti per i calli che aveva alle ginocchia, segno di preghiera ed umiltà”. (Massimiliano Beltrame)

 

 

da NUOVA SCINTILLA 39 del 21 ottobre 2012