Sguardo Pastorale

PRETI SINODALI: È POSSIBILE?

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Più di qualche volta ho già enunciato la necessità di una riflessione sulla figura del prete e del suo ministero in vista di Comunità cristiane sinodali. C’è infatti una conversione, o potremmo dire modulazione, del ministero presbiterale in senso sinodale che non può essere data per scontata e garantita.

Dalla teologia del sacramento dell’ordine ai testi conciliari fino a quelli magisteriali che sono seguiti negli anni, il ministro ordinato (sia egli vescovo, presbitero o diacono) non è mai descritto come un monolite a sé stante, anzi: sia dell’identità sia dell’esercizio del ministero sono posti in evidenza le origini, i legami, le relazioni, l’oblatività (cioè l’essere per). Verrebbe da dire che un accostamento serio dei testi a nostra disposizione dovrebbe portare alla maturazione dell’idea che la vita e il ministero di un prete è congeniale allo stile sinodale.

L’intoppo è nella realizzazione pratica-pastorale del ministero presbiterale identificato in ruoli d’ambito, come quello del parroco, o di vicario parrocchiale, o di direttore di un ufficio pastorale o altri ruoli di direzione, nei quali è accentuata la responsabilità diretta della persona, anche se non per questo è esclusa la collaborazione e la capacità di lavorare in e con un’equipe.

Ci sono degli elementi, che vanno oltre alla fragilità umana che ci condiziona, che dobbiamo tener presenti per provare a capire cosa succede nel momento in cui osserviamo che c’è una reale difficoltà nell’attuare quelle dinamiche relazionali che aiuterebbero a sostenere un ideale alto della vita presbiterale. Essi sono: la tendenza a fare nostra una condizione di vita che ci restituisca un senso di realizzazione e lo scopo di quello che facciamo.

Nessuno di noi, infatti, investe delle energie e del tempo in un progetto che non sente suo, tantomeno questo succede quando parliamo di un progetto di vita o meglio ancora della prospettiva vocazionale su cui intendiamo improntare la vita. La domanda, che ingenuamente ci poniamo quando siamo bambini, “che cosa farò da grande?”, dice della questione che cercheremo di risolvere in tutto il percorso della nostra vita, confrontando l’ideale con la realtà e il grado di realizzazione di noi stessi che percepiamo. Ognuno di noi tende ad essere il protagonista della propria vita. C’è un sano voler primeggiare che ci conduce a trovare il nostro posto.

Un ruolo direttivo richiede una capacità di primeggiare, ma cosa vuol dire quando questo è posto condizionatamente in relazione con gli altri? C’è senza dubbio chi si chiede a cosa serva il prete se poi ci sono altri ministeri istituiti che possono svolgere molte mansioni che finora erano considerate del parroco? Una risposta la colgo in Papa Francesco che ci parla di un “premerear” in Evangelii Gaudium 24. lui stesso lo traduce come “il prendere l’iniziativa” in riferimento a ciò che sperimenta la comunità evangelizzatrice che si sente preceduta dall’amore di Cristo, il quale ha preso l’iniziativa di fare il primo passo nell’amare. Questo è il primeggiare a cui siamo chiamati.

C’è poi lo scopo, che si può ritradurre nella risposta alla domanda: per chi sono, o sarò, prete? La tentazione di fare la conta di chi avremo nelle nostre comunità cristiane in un futuro prossimo, ha come controbattuta una amara prospettiva. Ma credo siano due gli antidoti che possiamo assumere per vedere le cose come le vede Gesù: chi è chiamato ad annunciare il Vangelo per il Regno sa che la sua priorità è quella di seminare (e la messe è molta); chi vuole annunciare ciò che ha toccato la sua vita lo fa con la gratuità di chi è consapevole che innanzitutto ciò che gli dà gioia è proprio questo.

Don Simone Zocca

Delegato della Pastorale