Ottava Domenica, tempo ordinario

Gesù maestro insegna a vivere

Vangelo di Luca 6,39-45

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La pagina del vangelo di questa domenica che è l’ultima del tempo ordinario dell’anno liturgico prima della quaresima, nella sua apparente normalità, è un forte invito ad essere onesti con Dio e con se stessi. Essa segue il discorso delle beatitudini e del perdono. E’ l’ultima parte del ‘discorso della pianura’ tenuto da Gesù dopo essere disceso dal monte con i dodici discepoli. L’evangelista Luca mette insieme sentenze diverse, parole e immagini che definisce parabole e che riguardano la vita dei credenti nelle comunità.

Il brano di oggi, come già quello di domenica scorsa, ci riporta al ‘come’: un discepolo “che sia ben preparato”, sarà, infatti, come il suo maestro. Se così non fosse, quel discepolo non ha nulla da insegnare a nessuno, perché sarà nient’altro che un cieco che “guida un altro cieco”. L’essere discepoli di Cristo non può essere fondato su altro che sull’insegnamento e l’agire del Maestro.

Ed ecco, allora, i suoi insegnamenti.

Il primo nasce da una domanda retorica posta agli ascoltatori: “Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?”. Un ammonimento che vale non solo per coloro che hanno compiti di guida, nella chiesa come nella società, ma anche per noi tentati, talvolta, di non riconoscere le nostre incapacità, i nostri errori, e, tuttavia, con la voglia di erigerci maestri degli altri.

Il secondo insegnamento Gesù lo declina così: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: ‘Lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio’, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello”. Camminare insieme comporta l’aiutarsi a vicenda, fino a correggersi. Purtroppo, però, nella vita di tutti i giorni spesso la correzione, anziché causare un cambiamento nella persona, produce divisione e inimicizia, finendo per separare invece di favorire la comunione. Il male che scorgiamo negli altri, tante volte, ci scandalizza, ci turba, ci invita alla denuncia. Tuttavia, ciò che vediamo negli altri come “trave”, lo sentiamo in noi come pagliuzza; ciò che condanniamo negli altri, tante volte lo scusiamo in noi stessi. La condanna di Gesù suona perentoria: “Ipocrita!” L’ipocrita è colui che simula – come un attore – i valori che in realtà non condivide e non vive: predica il bene ma razzola nel male.

Infine troviamo l’immagine dell’albero buono, che è tale perché produce frutti buoni, che invece non si possono raccogliere se l’albero è cattivo. Gesù richiama alla realtà e invita gli ascoltatori a discernere il vero dal falso discepolo in base al criterio dei frutti prodotti dalla sua vita. Non le parole, le dichiarazioni, le confessioni e neanche la preghiera bastano per dire l’autenticità della sequela di Gesù; occorre guardare al comportamento, ai frutti delle azioni compiute dal discepolo. Il cuore è la fonte del volere e operare di ogni essere umano. Se nel cuore c’è amore e bontà, allora anche il comportamento dell’uomo sarà amore; ma se nel cuore domina il male, anche le azioni compiute produrranno male: “L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda”. Per i farisei un’azione era buona se concordava esternamente con la legge di Dio. Per Gesù, invece, un’azione è buona soltanto quando esce da un cuore buono: altrimenti è una finzione, una ipocrisia. Gesù fa notare che se non abbiamo un cuore pieno di bontà e rettitudine, tutto ciò che facciamo porterà il marchio delle nostre cattive intenzioni, anche se esse sono nascoste.

 

Don Danilo Marin