RIFLETTENDO SUL VANGELO - V domenica T.O. - ANNO B

Nella vita di ogni giorno

LETTURE: Gb 7,1-4. 6-7; Sal 146;  1 Cor 9,16-19.22-23;  Mc 1, 29-39

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Bello l’inizio del Vangelo di questa domenica (Mc 1, 29-39) che collega la sinagoga alla casa di Pietro: “Gesù, uscito dalla sinagoga, subito andò nella casa di Simone e Andrea, in compagnia di Giacomo e Giovanni” (v. 29). Domenica scorsa abbiamo lasciato Gesù in sinagoga dove insegnava “come uno che ha autorità” e dove ha liberato un indemoniato, posseduto da uno spirito impuro.

Oggi, invece, incontriamo Gesù uscire dalla sinagoga e andare subito a casa della suocera di Pietro che giace malata, a letto, con la febbre. I discepoli, impotenti davanti alla malattia, sono però potenti nell’intercessione e parlano di lei a Gesù. Potremo dire subito che in certi momenti in cui ci sentiamo umanamente impotenti, non dovremmo mai dimenticare la potenza della preghiera d’intercessione, dove presentiamo al Signore anche le necessità e i bisogni degli altri. Nel racconto di una giornata normale vissuta da Gesù si rimane commossi e stupiti dalla quantità di incontri e dalla sua totale immersione nella vulnerabilità della carne, “guarendo molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni” (v. 34). La creatura fragile e mortale conosce in Lui un Dio totalmente solidale, che si “immischia” senza mezze misure nella passione dei suoi figli.  Troppo spesso la fede sembra rimanere vera solo nelle mura del tempio, ma non si collega con le mura domestiche.

Gesù si è presentato subito come Colui che era stato inviato a portare il lieto annuncio ai poveri, la guarigione ai malati, la liberazione da tutto ciò che opprime l’uomo e lo tiene prigioniero. E’ consapevole di questo, e di fronte alla malattia e alle tante sofferenze umane diviene sacramento di speranza e di salvezza per tutti.

Il vangelo di oggi, in particolare, mette in luce tre atteggiamenti che caratterizzano pienamente la sua missione e diventano gli atteggiamenti anche del discepolo del Maestro, di noi tutti. Il primo atteggiamento è quello di un Gesù che prende per mano: “La suocera di Simone era a letto con la febbre. Egli si avvicinò e la fece alzare prendendola per mano” (v. 31). Gesù compie il gesto più umano che poteva fare. Ai molti malati di Covid in questa pandemia, negli ultimi istanti della loro vita è venuto a mancare, purtroppo, non solo l’ossigeno per continuare a vivere ma soprattutto una mano amica, familiare che li accarezzasse e facesse sentire loro la vicinanza di una persona cara. Al letto di una persona malata non contano i discorsi o le parole che diciamo e che sappiamo, spesso, non sono vere, ma conta il contatto di una mano che testimonia il fatto di condividere un tratto doloroso della vita di una persona. Gesù, poi, ed è il secondo atteggiamento che l’evangelista annota, si ritira a pregare: “Al mattino presto si alzò quando ancora era buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava” (v. 35). Per Gesù la preghiera non era, certamente, la fuga dalle sofferenze dell’umanità ma un trovare la carica giusta, la forza, la spinta per essere ancora più pienamente presente tra la gente che giace nel  bisogno. La preghiera dice affidamento in Colui che se anche non esaudisce, subito, la richiesta  di guarigione, tuttavia dà la forza  per portare più serenamente la croce. Infine, il terzo atteggiamento è quello del muovere i propri passi per vivere l’annuncio. “Guai a me se non annuncio il Vangelo”, ci ricorda San Paolo. Gesù non si preoccupa di raccogliere apprezzamento o riconoscenze, per ciò che ha operato. A lui interessa seminare nel cuore degli uomini la parola del Regno. Il Vangelo, che siamo “chiamati” ad annunciare non è solo parola, predica o discorso, ma è soprattutto vita, è un conformarsi continuamente a Cristo, attraverso la vicinanza a quanti rappresentano Cristo nella sofferenza e nella necessità, è dire quella parola di speranza che perfora il muro del dolore e della morte. I tre gesti di Gesù, da una parte descrivono una sua giornata “tipo”, dall’altra indicano quale deve essere lo stile nostro di cristiani soprattutto verso chi incontriamo nel nostro cammino che ha bisogno o soffre.  E’ un po’ come dire che la fatica più grossa che noi facciamo nella nostra esperienza cristiana è ritrovare la strada di casa, della quotidianità, delle cose di ogni giorno, sostenuti e aiutati dalla fede sperimentata e alimentata nel tempio.

Don Danilo Marin