Sguardo pastorale

Un estraneo

buon_samaritano
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Nel tempo di Natale abbiamo meditato il mistero dell’incarnazione e la liturgia della Parola ci ha posti di fronte alla concretezza dell’uomo Figlio di Dio, che nel suo discendere dall’alto non ha disdegnato di arrivare fino al punto più basso dell’umanità per raccoglierla e salvarla, perché per questo era venuto. Le ombre della storia dell’umanità, la fragilità della creazione, gli ideali di un popolo trovano eco nel cuore del Cristo, buon samaritano, e dei suoi discepoli.

Nel secondo capitolo della sua enciclica “Fratelli tutti”, Papa Francesco ci ripropone la parabola del buon samaritano per offrirci la sua chiave di lettura delle relazioni umane chiamate ad aprirsi ad una fraternità universale: il fondamento biblico è questa parabola, con la quale Gesù allarga il concetto ebraico di prossimità ben oltre il limite dell’appartenenza allo stesso popolo e afferma che la grazia di Dio percorre strade impensate (si serve anche dello straniero).

Afferma il Papa: «Guardiamo il modello del buon samaritano. È un testo che ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, come costruttori di un nuovo legame sociale. […] Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro» (n. 66).

Come avremo modo di vedere anche più avanti, la fraternità universale si offre come visione profetica di una umanità che si riconosce accomunata nella sorte e, grazie a questo, capace di attraversare il buio della prova e della fragilità restituendo ad ogni uomo e donna la propria dignità. Potremmo dire che la fraternità universale si offre come luogo teologico e chiave di lettura per una antropologia sociale. L’icona evangelica del buon samaritano muove dalla convinzione che ognuno, ogni giorno, ha a disposizione l’opportunità di fare la sua parte, perché «gode di uno spazio di corresponsabilità» (n. 77) per trasformare la realtà sociale nella quale vive e innescare nuovi processi. La vita dunque non è mai un sentiero percorso nella solitudine e nell’individualismo dei propri progetti, ideali, convinzioni, ma è innanzitutto esperienza di incontro: è l’incontro che suscita interrogativi, offre un senso, mostra un’alternativa, suscita emozioni, spinge a decisioni. In ogni incontro, potremmo quasi immaginare, è celata e svelata una vocazione e una risposta personale.

È rimanendo fedeli alla nostra storia (alla nostra vita), intesa come luogo in cui Dio ci chiama, che diamo concretezza all’ideale di una prossimità senza frontiere: situazione per situazione, persona per persona, evitando però l’errore di farci carico individualmente della realtà, investendo le energie nel cercare un “noi” che sia più forte «della somma di piccole individualità» (n. 78).

Siamo dunque chiamati a fare pratica di prossimità accettando innanzitutto di obbedire alla vita, quale luogo di incontro, accettando di guardare oltre le nostre aspettative, per non rimanere schiavi di una ideologia o utopia, ma allargare il nostro cuore superando «pregiudizi, barriere storiche o culturali» (n. 83).

don Simone Zocca