Sguardo pastorale

Pensavo fosse amore… invece era un calesse

sguardo-pastorale
Facebooktwitterpinterestmail

Il titolo del film del 1991 di Massimo Troisi mi permette di sintetizzare la riflessione che tento di proporre sulla vocazione al matrimonio. “Pensavo fosse amore… invece era un calesse” è un’espressione che dice della delusione circa le aspettative riposte, e successivamente disattese, in una relazione affettiva. Potrebbe essere la sintesi di molte vicende matrimoniali che, anche dopo molti anni di vita coniugale, si spengono per il colpo di testa di una delle parti, quasi per capriccio verrebbe da dire, o perché ci si è “seduti” nella relazione per cui tutto è andato spegnendosi o altre volte per il sopraggiungere di una consapevolezza diversa di se stessi e, quasi per incanto, ci si sveglia in una realtà che non si vuole più. Non voglio certo banalizzare perché dietro ad ogni fallimento c’è sempre una storia di sofferenza, almeno da parte di chi subisce la separazione se non addirittura anche in chi la procura perché spesso queste decisioni maturano dentro un disagio che si è protratto nel tempo. Per quante storie di questo genere abbia letto o ascoltato finora, per l’attività presso il tribunale ecclesiastico che tratta le cause di nullità matrimoniale, o per le volte di cui sono venuto a sapere di amici o persone conosciute mi chiedo sempre che cosa non ha funzionato. Ci sono senza dubbio scelte che vengono compiute sull’onda dell’immaturità psicologico-affettiva o dell’abitudine o della superficialità per cui un matrimonio celebrato in queste o altre particolari situazioni nasce già compromesso, come il seme buono gettato in un terreno refrattario o sassoso: non c’è la possibilità che affondi le sue radici e di fronte al sole della vita concreta appassisce e muore. Per cui a volte la Chiesa afferma pure che non c’è mai stato un vero matrimonio (quando ne dichiara la nullità). Ci sono però anche fallimenti matrimoniali che maturano perché se ne sono assecondate le cause giorno dopo giorno, non avendo l’accortezza di custodire il seme buono posto da Dio nella relazione affettivo-coniugale. Questo dice di una forte responsabilità che i coniugi hanno di dover custodire il loro amore: troppo semplice – a mio parere – affermare che ad un certo punto non si è provato più niente per il proprio partner.

“Pensavo fosse amore…invece era…” dice anche di quelle scuse fittizie che si adducono per scrollarsi di dosso la responsabilità di non aver saputo/voluto vegliare su se stessi e sull’altro/a come il tesoro (o la perla preziosa) sepolto nel proprio campo. Infatti succede che si svende o si svaluta con facilità la vita che ci è stata donata e le persone che la abitano proprio perché non si è più scommesso sulla reciproca appartenenza decidendosi per l’illusoria libertà riconquistata. Quando si svende l’altro/a si ha già svenduti se stessi. Basta poco, allora, per perdersi. Superficialmente cerchiamo le colpe di questi fallimenti nell’avvento dei social, casomai nel loro uso sconsiderato. Qualcuno, oggi, può dare persino la colpa al lockdown. Le premesse c’erano già e spesso si nascondono dietro a quello che non si riesce ad ammettere di se stessi, per cui mentire e costruirsi un’immagine artificiale della propria personalità diventa abituale, ma non è altro che l’inizio della fine.

Sapessimo scommettere sul seme buono dell’Amore eterno con cui Dio ha benedetto la vita dei suoi figli!

don Simone Zocca