SGUARDO PASTORALE

Questione di linguaggio

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Nel consiglio pastorale diocesano dello scorso 25 gennaio, protagonisti sono stati alcuni giovani invitati perché potessero dare la loro testimonianza circa il rapporto che vivono con la comunità cristiana. A questi giovani è stato chiesto di farsi interpreti, nel limite del possibile, anche di quelle difficoltà che ostacolano la partecipazione dei giovani alla vita della Chiesa. I tre giovani, tutti coinvolti a vario titolo nella vita della loro comunità parrocchiale, hanno saputo individuare alcuni aspetti che chiedono di essere affrontati per accorciare la distanza fra i giovani e la Chiesa.

La difficoltà preminente sembra essere quella della distanza creata dai linguaggi diversi: la Chiesa non sa parlare ai giovani perché non si esprime con categorie comprensibili.

Quindi c’è una distanza nel linguaggio liturgico perché le celebrazioni non sanno coinvolgere i soggetti che vi partecipano: la struttura su cui sono modellate si presenta come un monolite inscalfibile; c’è una distanza nel linguaggio con cui si annuncia il vangelo per cui il messaggio di Gesù non è capito: alcune immagini non parlano più con lo stesso significato di un tempo o le omelie sono troppo lunghe e danno per scontati concetti che si credono di patrimonio comune ma così non è; c’è una distanza creata da uno stile incoerente (quindi da un linguaggio della vita) di coloro che rappresentano l’istituzione Chiesa come pure la scarsa coesione fra i fedeli cristiani di una stessa comunità.

La difficoltà nell’incontrarsi su un linguaggio comune fra l’istituzione ecclesiastica e il mondo giovanile è dovuta anche a un contesto culturale, sociale e religioso diverso da una volta nel quale non tutti hanno il medesimo bagaglio formativo per cui diventa necessario lavorare pastoralmente con i giovani su livelli diversi: alcuni di loro potranno farsi carico anche di una responsabilità parrocchiale in ambito educativo, mentre altri potranno essere avvicinati se si cerca di coinvolgerli con altre attività, magari di carattere sociale o sportivo.

Altri non si lasceranno mai incontrare. C’è però, aggiungo io, anche un divario dovuto al linguaggio che si usa attraverso l’immagine che si assume di sé per rapportarsi con gli altri: cioè la Chiesa in quanto istituzione parte già penalizzata nel tentativo di rapportarsi con i più giovani perché l’istituzione in quanto tale è mal sopportata da chi, per la propria condizione, ne contesta a prescindere il ruolo di “controllo” e di “garanzia” che essa (l’istituzione, in genere) deve sostenere.

È quella difficoltà di intercomunicazione che si riscontra anche tra generazioni diverse, tra educatori e educandi, tra genitori e figli.

A quale immagine la Chiesa deve modellarsi per essere oggi capace di parlare di Cristo per portare a Cristo l’uomo? Nel summit, tenutosi una decina di giorni fa in Vaticano, per la tutela dei minori, Papa Francesco ha affermato in modo forte che è necessario “pensare la Chiesa con le categorie di una donna”, cioè, continua il Pontefice: “Non si tratta di dare più funzioni alla donna nella Chiesa, si tratta di integrare la donna come figura della Chiesa nel nostro pensiero”.

La donna in quanto tale è indicata come custode delle categorie del linguaggio di cui oggi la Chiesa deve fornirsi per riabilitarsi agli occhi del mondo, dopo gli scandali sulla pedofilia, ma non solo.

È un’intuizione nuova quella di Papa Francesco? Non del tutto se pensiamo al modello di donna che la Chiesa è chiamata ad imitare e che il Concilio indica in Lumen Gentium n. 63: “La beata Vergine, per il dono e l’ufficio della divina maternità che la unisce col Figlio redentore e per le sue singolari grazie e funzioni, è pure intimamente congiunta con la Chiesa: la madre di Dio è figura della Chiesa, come già insegnava sant’Ambrogio, nell’ordine cioè della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo”.

don Simone Zocca