SGUARDO PASTORALE

Giordania e Israele

Giordania-Israele
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“Pregate per noi!” Con queste parole la guida giordana ci salutava, al termine del suo servizio, prima che passassimo, ad Aqaba, la frontiera con Israele. L’avevamo appena ringraziato perché aveva saputo coniugare cultura e umanità, una forte sensibilità religiosa e un grande rispetto nei confronti di tutte le sue manifestazioni. “Il mondo ha bisogno di comprensione e non di condanna” diceva. “Se questa terra sapesse mettere insieme lo sviluppo tecnologico degli ebrei e la ricchezza naturale degli arabi, sarebbe un vero paradiso terrestre”. Con queste parole focalizzava l’attesa di ogni autentico animo umano: l’accoglienza reciproca, la collaborazione, la pace. “Tornando a casa dite che la Giordania, al di là della diversa religione, conserva una storia ed esprime delle attese che sono patrimonio comune”.

Ed è proprio questo che intendo fare, senza nulla togliere a Israele. Ho visto volti scavati dalla fatica come le montagne dal vento del deserto, giovani vigorosi adoperarsi per l’accoglienza, negli alberghi come nei siti archeologici. E bambini, tanti bambini, distratti dai doveri scolastici in queste ultime settimane di sole per offrire ai turisti la voluta di cartoline, l’asinello per il trasporto, il cammello per la foto.

Ho ammirato i panorami mozzafiato del tramonto nel deserto, le miriadi di stelle nel buio del campo tendato, i colori dell’alba tra le mandrie di cammelli e le prosperose greggi.

Per la natura è già futuro, ma per ora i sogni si infrangono in un muro. Non tanto la frontiera tra Giordania e Israele, ché lì i controlli sono d’obbligo, quanto piuttosto la barriera fisica che separa Gerusalemme da Betlemme. Quasi un’ora di fila. E penso alle famiglie separate, ai lavoratori che abitano al di là di questo ostacolo innaturale, allo stesso turismo religioso, e non, che ha portato anche noi in questo territorio sacro. “È per scongiurare attentati” ci viene spiegato.

Appunto, la violenza, l’intolleranza, il sospetto, tra uomini e uomini, tra diverse culture. Il muro è dentro, è quello dell’invidia e della gelosia, che generano rabbia e aggressività; è quello dell’indifferenza che genera sfruttamento e dominio perché l’altro è strumento, mai fine. Scrivo tutto questo appoggiato alla roccia del Getsemani, lì in cima alla navata destra della chiesa del Barluzzi, dove i sedili lungo la parete sconfinano con la roccia.

Su questa roccia Qualcuno ha vinto ogni forma di separazione, anche quella della fatica nel credere che ha addormentato i suoi. L’ha fatto preparandosi al dono di sé, l’unica e universale volontà del Padre. Credo sia proprio questo il filo rosso che deve legare insieme tutte le fedi: la teologia del dono. Finché non l’abbiamo studiata, imparata e incarnata nel nostro piccolo vissuto resteremo schiavi, anche dentro le presunte libertà della nostra democrazia occidentale. Invece esci e, anche qui sul monte degli ulivi, ti trovi nel bel mezzo di quell’industria commerciale che caratterizza ormai tutti i nostri santuari.

E ci caschi dentro perché, secondo consuetudine, per dimostrare che ti sei ricordato di parenti e amici devi portare a casa qualche oggetto sia pur piccolo, religioso o profano che sia. Ho raccolto un ramoscello di ulivo e, seduto in un angolo del giardino, ho staccato lentamente ogni singola foglia abbinandovi il volto di una persona. Le ho lasciate poi cadere in quella terra, santificata dal sangue di Cristo, chiedendogli di rendere tutte le mie relazioni feconde di pace e di bene.

don Francesco Zenna