Il pregiudizio

Francesco-Ambone
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SGUARDO PASTORALE

Il pregiudizio

Da giovane avevo la presunzione di poter godere sempre della stima e della fiducia di tutti. Del resto sono stato sempre animato da retta intenzione e dal desiderio della coerenza, sia sul fronte delle regole sia su quello delle relazioni. Mi sono accorto presto che non basta. È come quando si scrive un messaggino in WhatsApp. Ti esprimi mosso da pensieri e sentimenti ben chiari, ma le parole non li esprimono compiutamente, per cui il messaggio viene interpretato a seconda dello stato d’animo e della precomprensione di chi legge. Capita che ti senti dare una risposta risentita o aggressiva per qualcosa che non ti era passato nemmeno per l’anticamera del cervello. Così è nella vita, nei rapporti familiari o sociali, nelle amicizie, nell’ambiente di lavoro e nella stessa comunità cristiana. Le stesse parole, le stesse scelte, gli stessi atteggiamenti tenuti da persone diverse vengono percepiti in modo discorde a seconda del giudizio che abbiamo su ciascuna di esse. Succede anche a me, a volte senza volerlo e a volte con consapevolezza. Si tratta del “pregiudizio”, di quel giudizio, cioè, basato su opinioni precostituite e su stati d’animo irrazionali, anziché sull’esperienza e sulla conoscenza diretta. E, poiché coinvolge la sfera emozionale oltre a quella razionale, risulta difficile da debellare pur comprendendo che il più delle volte porta fuori strada, impedisce di progettare insieme o demolisce quanto si è costruito, sia con fatica sia con entusiasmo.

Il servizio pastorale che sto svolgendo in diocesi mi mette spesso di fronte a questa fragilità, sorella minore dell’arroganza e della presunzione. Presbiteri che hanno già incasellato i collaboratori pastorali, i confratelli e gli stessi superiori sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali; fedeli laici pronti a stigmatizzare parole e gesti dei pastori a partire dalle proprie attese e opinioni; responsabili di comunità che non sanno aprirsi al nuovo e rimangono ingessati sull’abitudine o, al contrario, affossano tutte le tradizioni, considerate solo nei loro aspetti esteriori; operatori pastorali che pensano di evidenziare la loro opera denigrando quella degli altri, se non addirittura gettando sospetti sulle persone e creando volutamente situazioni di tensione e disagio. Devo onestamente riferire anche di esperienze molto positive di corresponsabilità e cordiale reciproca accoglienza. Ma sto parlando del pregiudizio, e la tendenza a pescare nel torbido risalta con maggiore evidenza, arrivando ad offrire ai media, e ai social in particolare, materiale su cui sbizzarrirsi o per ignoranza o per calcolo. Pensavo che poteva essere un buon esercizio di conversione quaresimale individuare gli antidoti a questa fragilità. Il primo è senz’altro la disponibilità a dar credito alle persone, considerando le intenzioni che le muovono al di là di quanto appare esteriormente. Di conseguenza il secondo antidoto è un ascolto serio dell’altro, anche cercato se necessario, e il dialogo sincero, costruito sull’umiltà, e la parresia, il coraggio evangelico. Non può mancare poi il discernimento, soprattutto comunitario, per lasciare che lo Spirito del Signore illumini anche gli angoli più bui del nostro vissuto e ci faccia intravedere il positivo che dimora ovunque. E ancora la fede, intesa come fiducia. La accordiamo al Signore che ci mette accanto proprio a queste persone e non ad altre, e in tutti coloro che entrano in relazione con noi per i più svariati motivi o i ruoli più diversi.

In pastorale è preferibile sbagliare per aver creduto troppo negli altri piuttosto che per aver chiuso il proprio cuore all’incontro e alla fraternità con il catenaccio del pregiudizio.  

don Francesco Zenna

Nuova Scintilla n.9 – 4 marzo 2018