La vita non finisce mai

Facebooktwitterpinterestmail

SGUARDO PASTORALE

La vita non finisce mai

Il “fine vita” per un credente non esiste. Lo affermavo un po’ provocatoriamente all’inizio della conferenza che l’Avulss mi ha chiesto di tenere l’ottobre scorso. Si prende atto che il nostro corpo va ineluttabilmente verso il suo disfacimento ma nello stesso tempo si professa l’immortalità della persona. La vita ci è stata donata da Dio nel momento stesso del concepimento e nessuno la strapperà mai dalle sue mani. “Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire”, afferma Anna, madre di Samuele, nel suo cantico di lode. Accettare che il nostro organismo cessi le sue funzioni biologiche non smentisce questa consapevolezza, anzi in qualche modo la rafforza perché mostra che sappiamo distinguere chiaramente ciò che è caduco, in quanto sottostà alla legge della fragilità della condizione terrena, da ciò che è duraturo, in quanto destinato ad esistere per sempre in Dio. La dignità di quella che chiamiamo “vita umana” è determinata proprio da questa consapevolezza e da questa distinzione, non può essere ostaggio dei risultati delle scoperte scientifiche. E questa dignità ci porta ad avere anche nei confronti della vita umana quella riverenza che è dovuta a una cosa sacra. Non ne disponiamo in maniera arbitraria – afferma il catechismo della Chiesa cattolica – non ne siamo proprietari ma solo amministratori.

Anche stabilire l’ora della nostra morte terrena spetta all’onnipotenza di Dio: dove moriremo, quando moriremo, come moriremo, tutto è riposto nella sapiente provvidenza divina. Per questo sia l’omicidio che il suicidio si contrappongono all’ordine divino. Con fiducia professiamo con San Paolo: “Se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore”. Lo stesso Signore Gesù ci è modello e norma; nell’ora dell’agonia sul monte degli ulivi ci dà l’esempio del morire affidandoci a Dio, quando esclama: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”. E sulla croce ripete le parole del salmo: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito”. Non possiamo tuttavia negare che lo sviluppo scientifico ha migliorato anche la nostra condizione di caducità, ha prolungato la vita biologica, ha reso meno dolorosa l’esperienza della malattia e della morte. Anche di fronte a questa consapevolezza, però, ci domandiamo quanto questo sviluppo ha contribuito di fatto a renderla anche più dignitosa. In questi giorni è stata approvata dal Parlamento italiano la legge sul testamento biologico secondo la quale ogni «persona maggiorenne, capace di intendere e volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può, attraverso «disposizioni anticipate di trattamento», esprimere le proprie convinzioni e preferenze in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto a scelte diagnostiche o terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari, comprese le pratiche di nutrizione e idratazione artificiali». Di fronte a questa possibilità si apre un ampio spettro di questioni mediche, sociali, umanitarie, religiose e pastorali. Soprattutto l’accompagnamento medico deve essere svolto con particolare impegno, dato che deve rimanere sempre al centro dell’attenzione rispettare la vita, ma ugualmente anche non prorogare la morte in modo irresponsabile. Il processo naturale della morte, infatti, non deve essere ostacolato, essendo anch’esso espressione della volontà creativa di Dio: “L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire”, afferma chiaramente il catechismo. Qualsiasi legge va letta e interpretata dal credente all’interno di questa logica.

don Francesco Zenna

Nuova Scintilla n.49 – 24 dicembre 2017