Nella libertà della sequela

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SGUARDO PASTORALE

Nella libertà della sequela

L’immagine del “tendere le mani”, che Gesù introduce nel suo dialogo con Pietro, evoca chiaramente la missione del presbitero. La sua è una vita donata al Signore e disponibile a “lasciarsi condurre da lui al servizio degli uomini”. La sua identità viene definita dal ministero che è chiamato a esercitare, ma anche l’impegno alla radicalità evangelica esprime “l’unicità del suo rapporto con Gesù” e “la piena consegna di sé”. “L’obbedienza al proprio Vescovo, la scelta celibataria e lo stile di sobrietà” concorrono infatti a plasmare e rigenerare la vocazione e la missione del discepolo. Alla loro limpida osservanza è legata la stessa “credibilità e capacità d’attrazione alla novità del vangelo”.

L’obbedienza viene espressa dalla “piena fiducia e dall’affidamento” al proprio vescovo, “in un rapporto basato sulla fede in Cristo” e non sul “piano semplicemente umano”; viene esercitata non come “subordinazione” o “sottomissione”, ma come “esigenza comunitaria, profondamente inserita nella comunione del presbiterio”; smaschera l’ambizione del potere, la ricerca del tornaconto personale, il dispotismo nel servizio e “crea l’attitudine a lasciarsi guidare”, vincendo resistenze e mormorazioni; “matura una disposizione a camminare con la propria gente in un discernimento pastorale che non lo esonera dalle responsabilità ma lo rende anima della comunità”. Anche il Vescovo viene interpellato da questa categoria evangelica in quanto lo lega a ciascuno dei suoi presbiteri, di cui si deve prendere cura sia nell’attribuzione degli incarichi pastorali sia nella prossimità verso chi vive situazioni di difficoltà”.

La castità, “vissuta secondo la modalità celibataria” esprime la “donazione totale, con cuore libero e indiviso” a Dio “l’unico fine dell’uomo”, a Cristo da cui ci si è lasciati conquistare, alla Chiesa il cui amore “impegna tutte le dimensioni dell’esistenza”; si costruisce attraverso relazioni intense, senza ambiguità, “una dedizione limpida e gratuita”, “rinunce consapevoli e motivate”; educa il cuore e la mente a vivere “rapporti sereni e positivi” che “aiutano a superare” atteggiamenti ingessati o duri e favoriscono “l’ascolto e l’accompagnamento”.

Lo “stile di sobrietà” si esprime nel “distacco dai beni materiali” e nel “loro orientamento alla condivisione con i poveri”. La testimonianza del presbitero passa soprattutto attraverso questa dimensione, perché, “nel rapporto con l’avere egli rivela il suo modo di porsi davanti a se stesso e al proprio futuro, davanti agli altri e a Dio”. Il consumismo a volte condiziona la vita del presbitero che si riduce a fare l’impiegato, mentre la povertà “fa crescere la donazione al Signore” e la “dedizione a tempo pieno al ministero”. Chi è povero ha un bagaglio più leggero, è più libero, risulta “guida affidabile agli occhi del popolo di Dio e interlocutore credibile anche per i lontani”, è più “disponibile a essere inviato là dove la sua opera è ritenuta più opportuna”, è più facilitato nelle “forme di vita comune con altri presbiteri”.

Esistono forme riconosciute dalla Chiesa attraverso le quali anche il presbitero diocesano può emettere i voti di obbedienza, castità e povertà, proprio per affermare, anche con questo impegno spirituale ed esistenziale, la dimensione sponsale del suo amore per Cristo e per la Chiesa, “un amore che è donazione piena, offerta della vita, del tempo, del cuore, delle forze, delle energie interiori, intellettuali ed affettive”, senza estraniarsi dal mondo, anzi restando a pieno titolo “nel tempo e nella società” con una particolare attenzione alle loro dinamiche positive e negative per promuoverle o denunciarle con coraggio.

don Francesco Zenna

Da Nuova Scintilla n.41 – 29 ottobre 2017