Il saluto della diocesi a don Gionanni Lodo

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Il saluto della diocesi a don Gionanni Lodo

Con un commovente e intenso rito liturgico l’Unità pastorale di Loreo e la comunità diocesana hanno dato l’ultimo saluto a don Giovanni Lodo, spentosi dopo lunga malattia all’aurora del giorno di Pentecoste all’ospedale di Adria. Nel duomo di Loreo, dove don Giovanni aveva celebrato per 15 anni come arciprete, curando la liturgia e ogni altra attività pastorale con passione e dedizione, una grande folla di fedeli, compresi gli scout e i confratelli della SS. Trinità nelle loro divise, gli si è stretta attorno, mentre il coro parrocchiale ha eseguito alla perfezione i canti sostenendo l’assemblea. Il rito, presieduto dal vescovo diocesano mons. Adriano Tessarollo, era concelebrato dal vescovo mons. De Antoni, dall’arciprete don Angelo Vianello e dal cooperatore don Simone Doria, dai confratelli di Seminario mons. Angelo Busetto e mons. Alfredo Mozzato e da un’altra trentina di sacerdoti diocesani. All’omelia il vescovo Adriano ha sottolineato la grande devozione di don Giovanni per lo Spirito Santo (che lo ha chiamato a sé proprio nel giorno di Pentecoste!) e per la Madonna, particolarmente venerata a Loreo come Madonna della carità, sotto il cui sguardo tante volte ha pregato, offrendo anche le fatiche del suo ministero e da ultimo le sue sofferenze. Partecipi alla celebrazione, oltre ad alcuni familiari, anche fedeli provenienti da altre comunità che don Giovanni ha servito durante il suo lungo ministero: in particolare dalla parrocchia Spirito Santo di Sottomarina e da quella di Scalon di Porto Viro. Il vescovo alla fine ha voluto ringraziare quanti hanno assistito don Giovanni nell’ultimo periodo e ha sottolineato che don Giovanni nel suo testamento si è ricordato della comunità di Loreo, del Seminario e della diocesi. La benedizione della salma è stata compiuta unitamente dai due vescovi, mentre i confratelli della SS. Trinità, incappucciati, hanno poi scortato la bara fino all’uscita. (Vito)

 

Un fratello e un amico

lodo-funeraleA metà del secolo scorso, qualche parrocchia della nostra diocesi si poteva chiamare “nido di vocazioni”, dove ad un sacerdote apripista seguivano nel tempo altri preti. Così capitò anche a Pettorazza. Don Giovanni nacque in questo ambiente. Eravamo in sei: don Sante, don Amedeo, don Erminio, don Antonio e poi don Giovanni e il sottoscritto, entrati in seminario insieme nel lontano 1951. In seguito si aggiunsero i fratelli Poletto: don Virgilio, che entrò nel clero diocesano e don Silvano, religioso missionario, tra i figli di san Luigi Guanella. Si può dire che per una decina d’anni la parrocchia di Pettorazza visse, quasi ogni anno, un sussulto di fede e una gioia incontenibile. In questi ultimi anni c’è stata una debole ripresa, grazie a Dio. Don Giovanni si è spento all’alba del giorno di Pentecoste; gli amici neocatecumenali, e non solo loro, hanno visto il fatto come un dono. Per me è venuto a mancare un caro amico, anzi un fratello. Abbiamo fatto un lungo tirocinio tra i chierichetti e il seminario per noi divenne un autentico sogno. Per le nostre famiglie fu un pesante problema economico. Eravamo poveri. I nostri papà erano semplici braccianti. Non vorrei mancare di riservatezza ricordando che quando don Giovanni entrò in seminario, la sua famiglia viveva in una casa di paglia con i pavimenti in terra battuta. Erano le tristi condizioni in cui i padroni lasciavano i loro dipendenti. Vorrei dire che la nostra povertà non era da mettere a confronto con “L’albero degli zoccoli” del regista Ermanno Olmi. In queste poche righe io non desidero ripetere quanto è stato detto durante il suo funerale. Ma mi sento di affermare che don Giovanni ci ha insegnato in che cosa consista la vera grandezza di un prete: l’umiltà, la pietà, la coltivazione della vita interiore, l’adorazione eucaristica, il ministero della penitenza e della direzione spirituale, il candore dell’anima che si apre a tutti, specialmente ai sofferenti, la testimonianza della carità, l’esercizio delle opere di misericordia spirituale, molto più difficili e meritorie delle opere di misericordia corporale, pur necessarie. Don Giovanni è stato un sacerdote buono. Queste parole dovrebbero bastare per definire la sua esistenza. Sennonché mi pare di mancare ad un obbligo morale se non accenno almeno al suo declino fisico lento e inesorabile. Noi preti, per vocazione e missione, siamo chiamati a vivere in forma non superficiale e occasionale, ma sistematica e volontaria, il mistero della croce, di fronte al quale la natura stessa, prima che la parola di Gesù, ci pone, in forza dell’esperienza vitale, la quale altro non è se non alternanza di gioia e di dolore, con prevalenza, il più delle volte, di questo su quella. Noi preti siamo di solito facili predicatori della teologia della croce, ma qualche volta, quando il Signore vuole parteciparci in dosi straordinarie – per intensità o per durata – la pena che egli stesso sopportò, siamo naturalmente portati a ritirarci, a chiedere, come per altro egli ci insegnò nell’orto degli ulivi: “Padre, se è possibile, allontana da me questo calice” (Mt 26, 39). Don Giovanni fu associato alla croce del Signore intimamente e duramente. Vivere un dolore fisico e magari psicologico-morale, al quale non si può, in alcun modo, fare l’abitudine e non perdere la fede e la speranza, non è solo un dono speciale del Signore, ma anche preziosa ed ardua virtù, destinata ad essere rimunerata soltanto nella vita eterna. Una delle tante perle lasciateci da san Paolo suona così: “Sono stato con-crocifisso con Cristo, non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, io la vivo nella fede del Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,19b-20). Accostandomi a don Giovanni, negli ultimi mesi della sua vita, mi tornavano in mente queste parole, piene di verità e di luce. Don Giovanni è vissuto e morto da prete. Prete genuino, umanissimo. Sono commoventi le parole del suo testamento spirituale, quando ricorda il papà Gino, sottolineando la sua indole mite e serena, l’ottimismo tipico di chi è fortemente ancorato alla fede, il discernimento che gli consentiva di mettersi facilmente dalla parte di Dio. E ancora quando ricorda la mamma Ida per l’amore e le attenzioni di cui lo circondava, per l’esempio di fede e per l’interesse che dimostrava per il lavoro pastorale del figlio. Il nostro amico ha avuto un pensiero affettuoso anche per i tanti fratelli e sorelle di carne, con i quali condivise, fin da bambino, le gioie semplici dello stare insieme e le ristrettezze inevitabili di una famiglia povera e numerosa: fratelli e sorelle che gli sono stati affettuosamente vicini nella fase ultima della sua vita, insieme al dott. Pellegrini, alla sig.ra Laura e al sig. Giovanni. Durante una delle ultime visite che gli ho fatto a Papafava, parlammo della grazia che gli aveva concesso la Vergine Santa, di passare cioè da Loreo al nostro santuario. Don Giovanni era particolarmente devoto della Madre celeste. Chissà quante volte avrà invocato la Consolatrice degli afflitti e la Salute degli infermi! La Madonna l’ha sicuramente accompagnato, in quel mattino dell’ultima Pentecoste, verso la casa del Padre.

don Alfredo Mozzato

Nuova Scintilla n.24 – 18 giugno 2017