“Le mie pecore ascoltano la mia voce”

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PAROLA DI DIO – Letture: At 13,14.43-52; Salmo 99; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30 

“Le mie pecore ascoltano la mia voce”

At 13,14.43-52. “Ti ho posto come luce delle genti, perché porti la salvezza…”.

Alla loro prima missione, Paolo e Barnaba giungono ad Antiochia di Pisidia, dove c’era una fiorente comunità giudaica. Il sabato entrano nella sinagoga, ascoltano la lettura delle Scritture Sacre e poi prendono la parola. L’effetto sugli uditori è che “Molti giudei e proseliti credenti in Dio seguirono Paolo e Barnaba ed essi intrattenendosi con loro, li esortavano a perseverare nella grazia di Dio”. Il sabato successivo la sinagoga è affollatissima. Ciò suscita l’irritazione dei Giudei, che rifiutano l’annuncio di Paolo e Barnaba riguardo Gesù di Nazaret. Così la predicazione apostolica dapprima rivolta ai giudei e pagani fa i primi discepoli, ma poi viene ufficialmente rifiutata dalla sinagoga. Questo rifiuto, che provoca la rottura tra giudei e giudeo-cristiani dà origine alla nuova comunità cristiana. Paolo e Barnaba si rivolgeranno ora principalmente ai pagani. Questa nuova situazione viene compresa alla luce di Is 49,6: Gesù, il Messia crocifisso e risorto che gli apostoli annunciano è Colui che “è posto come luce per le genti perché porti la salvezza sino alle estremità della terra”. A questo scopo si sentono inviati Paolo e Barnaba. Quest’esperienza locale diventa l’occasione per Luca di motivare il passaggio della predicazione apostolica dal mondo giudaico a quello pagano, con le persecuzioni che hanno segnato gli inizi della comunità dei discepoli del Nazareno, i quali però “erano pieni di gioia e di Spirito Santo”.

Salmo 99. “Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida”.

Il salmo 99 è un inno con molti inviti alla lode (‘invitatorio’). Sette imperativi invitano alla lode e alla benedizione del Signore nel santuario, con due motivazioni. I primi quattro inviti, “Acclamate, servite, presentatevi a lui, riconoscete”, hanno come motivazione la duplice azione di Dio nella creazione (“egli ci ha creati”) e nell’alleanza (“noi siamo suoi, suo popolo”) esperimentata principalmente nel cammino dell’esodo (“gregge del suo pascolo”). Gli ultimi tre, “varcate le sue porte e i suoi atri inneggiando e cantando, lodatelo, benedite il suo nome” sono motivati dalla sua bontà, misericordia e fedeltà. Il culto come lode e ringraziamento ha come fondamento la storia e la vita dove si esperimenta chi è Dio. L’esperienza della bontà e misericordia fonda la speranza che esse non verranno meno “di generazione in generazione”.

Ap 7,9.14b-17. “L’agnello che sta in mezzo al trono sarà loro pastore…”.

Il brano dell’Apocalisse è l’ultimo messaggio racchiuso nel ‘sesto’ sigillo. La Chiesa è universale, costituita cioè dalla moltitudine dei salvati provenienti da “ogni nazione, razza, popolo e lingua”. L’immagine liturgica “stavano in piedi davanti al trono e all’Agnello” annuncia che il popolo dei credenti vive alla presenza di Dio (davanti al trono) e di Cristo salvatore (Agnello), partecipi della nuova condizione divina (“avvolti in vesti candide”), dopo aver vinto la grande battaglia contro il male (“portavano palme nelle mani”). Segue la spiegazione di uno degli anziani: “…sono passati attraverso la grande tribolazione… hanno lavato le vesti rendendole candide nel sangue dell’Agnello”. La grande tribolazione è la lotta sostenuta per rimanere fedeli a Cristo salvatore. È curioso poi che le vesti lavate nel sangue diventino bianche! L’autore annuncia così che la passione e morte di Cristo (sangue dell’Agnello) perdona i peccati e rende i credenti puri davanti a Dio (vesti candide). L’intervento di Dio porrà fine alle tribolazioni (“Dio tergerà ogni lacrima”), vivranno così protetti da Dio contro ogni minaccia (“Colui che siede sul trono stende la sua tenda su di loro”), custoditi da Cristo pastore e guidati alla vita eterna (“l’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle acque della vita”). È questo l’orizzonte che dischiude questo ‘sesto sigillo’. Questa è la Speranza che viene annunciata al discepolo di Cristo.

Gv 10,27-30. “Le mie pecore ascoltano la mia voce”.

Nel brano di Gv 10,27-30, l’attenzione è attirata principalmente sulle ‘pecore’ e sulla loro ‘nuova condizione’. Attraverso quattro affermazioni Gesù annuncia che suoi discepoli (mie pecore) sono coloro che ascoltano la sua voce e percorrono la via di Gesù; essi saranno strappati dalla morte eterna e saranno partecipi della vita divina. Concretamente, seguire Gesù significa rifiutare il male che egli ha rifiutato e dedicarsi alla volontà del Padre fino al dono totale di sé. Questa obbedienza e sequela crea tra Gesù e i discepoli una comunione profonda (Io le conosco), grazie alla quale Gesù fa partecipi i discepoli alla ‘vita eterna’ (Io do loro la vita eterna), cioè la vita che permane anche oltre la morte fisica. L’espressione “e non andranno perdute in eterno”, lascia intendere che non andranno perdute ‘per sempre’, senso ribadito nell’espressione “e nessuno le strapperà dalla mia mano”. Gesù cioè è il pastore che protegge la vita dei suoi discepoli. Da Gesù deriva al discepolo una qualità di vita nuova che non può ‘andare perduta’: è la vittoria sulla morte, è la vita divina e definitiva che nessuno può togliere a chi sta saldamente unito a Cristo nella fede. Non c’è potenza avversaria che possa vincere il Pastore a cui Dio ha affidato ‘le sue pecore’. Infatti “Il Padre, che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre”. Ma che relazione c’è tra Gesù e il Padre? “Io e il Padre siamo una cosa sola”. Gesù è e agisce in stretta e vitale unione con il ‘Padre’. Quello che Gesù è e dà è ciò che è e dà il Padre. Chi diventa o rimane discepolo di Gesù per mezzo dell’obbedienza alla sua Parola e della comunione con lui nella fede, è fatto partecipe della vita divina, entra cioè nel circolo d’amore che unisce il Figlio al Padre. Chi entra in questa relazione entra nella vita divina che è “vita eterna”.

+ Adriano Tessarollo