L’opera del diavolo

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lo sguardo pastorale

L’opera del diavolo

Più di qualche volta mi torna alla mente il contenuto di una catechesi in cui Papa Francesco affermava che «in una comunità cristiana la divisione è uno dei peccati più gravi, perché la rende segno non dell’opera di Dio ma dell’opera del diavolo». Ma quel che mi è rimasto impresso è il fatto che egli non parlava soltanto della divisione tra le diverse confessioni cristiane, dovute a divergenze teologiche e retaggi storici, quanto piuttosto a quelle a noi più vicine, alimentate da «chiacchiere, invidie e gelosie». «Peccati parrocchiali» li chiamava, e ne individuava la causa nella ricerca dei primi posti e dei successi personali, portata avanti denigrando gli altri perché non si hanno capacità sufficienti per emergere con le proprie forze. Il fenomeno riguarda i laici e trova pretesto nel gioco delle appartenenze, delle vicinanze, delle preferenze e a volte si consuma, ahimè, nell’esercizio conflittuale dei vari servizi ministeriali. Ma riguarda anche i presbiteri e si concretizza attraverso il confronto sui ruoli, sui titoli, sul prestigio delle responsabilità pastorali, e si alimenta di sospetti, di illazioni, di pregiudizi. Arrivo a dire che questo secondo aspetto nella Chiesa è ancor più grave perché produce scandalo, sfiducia e, addirittura, allontanamento. Ritengo che nel percorso quaresimale e giubilare vada fatta una seria verifica di questi comportamenti e si giunga a una autentica conversione, diversamente ci rendiamo nostro malgrado veicolo dell’opera del diavolo, che per definizione spacca le relazioni e sprofonda nel baratro di una solitudine arrabbiata e logorante.

Vie di risalita sono una previa stima e fiducia nei confronti dell’operato degli altri, la correttezza di assumere tutte le informazioni necessarie prima di sanzionare scelte e comportamenti, senza accettare in maniera acritica qualsiasi diceria, un’onesta valutazione di se stessi e delle proprie capacità e dei propri limiti per non cadere in contraddizione, e, non ultimo, l’esercizio della misericordia che siamo disponibili ad offrire ai lontani e neghiamo facilmente ai vicini.  «Dio, invece, – affermava il Pontefice – vuole che cresciamo nella capacità di accoglierci, di perdonarci e di volerci bene, per assomigliare sempre di più a Lui che è comunione e amore. In questo sta la santità della Chiesa: nel riconoscersi a immagine di Dio, ricolmata della sua misericordia e della sua grazia».  «Una volta, nella diocesi che avevo prima, ho sentito un commento interessante e bello», ha raccontato a braccio Papa Bergoglio: «Si parlava di un’anziana che tutta la vita aveva lavorato in parrocchia. Una persona che la conosceva bene ha detto: “Questa donna mai ha sparlato, mai ha chiacchierato, sempre era un sorriso”. Una donna così può essere canonizzata domani, è bello questo, un bell’esempio». Ecco, proprio così. C’è una santità pastorale che corre i binari della creatività, della generosità, della gratuità; ma risulterebbe senza meta se non facesse tesoro dei semafori verdi della comunione, della serena collaborazione, della gioia nella fraternità.

Che il Signore ci doni «la grazia di non sparlare, di non criticare, di non chiacchierare, di volere bene a tutti. Questo è convertire il cuore, no? E chiediamo che il tessuto quotidiano delle nostre relazioni possa diventare un riflesso sempre più bello e gioioso del rapporto tra Gesù e il Padre».

don Francesco Zenna