Don Giuseppe Ballarin

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Don Giuseppe Ballarin

Tra gli educatori e benefattori storici dei poveri in città

Tra i personaggi clodiensi che meritano ricordo e riconoscenza, figura anche don Giuseppe Ballarin (1899-1971). Per lui – come lo fu per Padre Raimondo Calcagno e per molteplici istituti religiosi e filantropici tra la fine dell’Ottocento e metà del Novecento – la carità fu il segreto della sua vita di educatore della gioventù abbandonata e derelitta. Ebbe una esistenza travagliata per disturbi fisici e danni intellettuali, superati con grande tenacia personale, con il costante contatto con Cristo e il provvidenziale aiuto di padre Attilio Soravia della Congregazione filippina di Chioggia: tanto che riuscì a essere ordinato sacerdote. Tra mille difficoltà, indossando il grembiule del servizio e affrontando disagi, umiliazioni e miseria, fondò a Sottomarina la “Casa fanciulli del popolo”: privilegiava gli ultimi della società promuovendone la dignità di creatura di Dio, nello stile del Divino Maestro. Riprovò l’esperienza a Pellestrina; notevoli ristrettezze economiche lo costrinsero a ritornare a Sottomarina.

Volendo ampliare la struttura abitativa perché sgorgava dal suo cuore l’amore disinteressato verso i deboli e gli indifesi, contrasse debiti, incappò nelle maglie della burocrazia, si scontrò in un contenzioso con il Comune tanto che nel 1947 fu sospeso “a divinis” dal vescovo diocesano Giacinto Ambrosi. Fu un gravissimo colpo per lui che fece cessare la sua attività caritativa. Non sconfitto, la sua profonda interiorità lo portò ad aprire una colonia montana a Molveno nel Trentino, che chiamò “Casa papa Giovanni XXIII” per ospitare i suoi “figli” (una cinquantina) durante le vacanze estive, ma la sospensione “a divinis” era per lui un pesante cruccio che limitò per ben 22 anni il suo cammino ascetico, il suo essere prete, perché doveva affrontare tribolazioni, sul piano della fede, della speranza, della carità, dei rapporti umani civili e religiosi. Poco prima della morte provvidenzialmente fu riabilitato da papa Paolo VI: poteva riprendere il suo ministero, offrire all’Eterno Padre il sacrificio di Cristo, la sua devozione calda e confidente alla Vergine, il suo intenso operare a favore dei ragazzi abbandonati, di cui divenne amorevolmente madre, padre, amico, fratello, quando una mano, la sera del 20 settembre 1971, lo uccise con un tagliacarte nel suo Istituto barbaramente e misteriosamente. Chi fu il sicario? Per quale motivo? Non si seppe più nulla: la sua opera si interruppe. “Hanno ucciso un santo”, si andava esclamando dopo il clamore momentaneo. Alcuni ragazzi, divenuti nel frattempo uomini, alcuni estimatori vollero ricordarlo con una scritta sulla lapide marmorea che sigilla il suo loculo in cimitero a Chioggia, dove, tra l’altro, si legge: “non sia anche dimenticato/ da chi ha beneficato”.

R. C. a nome di un beneficato

“da Nuova Scintilla n.12 del 22 marzo 2015”