Un’estate dentro le fragilità

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2. Attorno alla Caritas diocesana anche l’impegno per l’accoglienza dei profughi

Un’estate dentro le fragilità

La deflagrazione politica dei Paesi nordafricani, iniziata con la rivolta del pane in Tunisia, ha contribuito all’arrivo massiccio di migranti verso l’Italia a partire da gennaio-febbraio 2011. Si apre così la cosiddetta “Emergenza Nord Africa”: i migranti erano infatti perlopiù persone che scappavano dalle rivolte delle Primavere Arabe. Al contempo, l’inizio delle operazioni belliche della NATO contro il regime di Gheddafi ha dato il via ad un nuovo flusso di migranti dalla Libia. Ma la composizione di questi nuovi flussi era diversa da quanto ci si aspettava: ad arrivare non erano cittadini libici, ma bengalesi, maliani, ghanesi, nigeriani e ciadiani: ovvero migranti economici che si trovavano in Libia da anni per lavorare, magari con famiglia al seguito e costretti a partire in quanto fortemente minacciati a causa del loro colore di pelle (i soldati mercenari, infatti, erano prevalentemente persone di colore).

Attualmente: gli arrivi a cui stiamo assistendo sono frutto del conflitto siriano e iracheno, ma anche di molteplici situazioni di instabilità politico-economica e ambientale; il tutto facilitato dalla forte incertezza politica della Libia che di fatto non governa la sua frontiera del Mediterraneo. Quasi la totalità delle persone che sbarcano in Italia hanno il loro progetto migratorio verso altri stati dell’Unione Europea. Siriani ed eritrei, infatti, non permangono a lungo nelle strutture di accoglienza, ma riprendono immediatamente il loro viaggio verso altre destinazioni, prevalentemente nordeuropee.

Diversa invece è la situazione dei numerosi afghani e pakistani che giungono via terra in Friuli Venezia Giulia e che si vanno quindi ad aggiungere alle già faticose accoglienze del cosiddetto “Mare Nostrum”. Afghani e pakistani, infatti, sono già presenti clandestinamente da tempo in Europa, soprattutto negli stati del nord, arrivano in Italia per fare richiesta d’asilo ritenendo più facile ottenere qui il riconoscimento di protezione internazionale. Queste persone quindi non permangono solo poche ore sul territorio come avviene per siriani ed eritrei, ma si fermano tutto il tempo necessario alla definizione della loro posizione legale. Il che significa mesi di permanenza.

La situazione si presenta quindi complessa e variegata, ogni singolo segmento migratorio è composto da flussi che si differenziano l’uno dall’altro. Ad oggi è in atto in Iraq la genesi di un nuovo flusso migratorio che sta coinvolgendo centinaia di migliaia di cristiani e islamici moderati cacciati a forza dalle milizie dell’Isis portatrici dell’idea di un Califfato nel Nord Iracheno.

Passeranno come uno dei fatti che hanno contraddistinto tutto il 2014 e non solo l’estate, le migliaia di arrivi di migranti nelle nostre coste. Di conseguenza ogni territorio è stato coinvolto nell’accoglienza e nell’inserimento – più o meno sopportato – degli stessi, nei nostri paesi e quartieri.

A Porto Viro e a Chioggia

Due sono state le località, e relative strutture alberghiere, che hanno svolto questo compito di recettività dei profughi inviati dalle rispettive Prefetture, nel nostro territorio diocesano: Porto Viro e Chioggia. La provenienza quasi esclusivamente subsahariana a Porto Viro, più eterogenea a Chioggia con pachistani e afgani in prima linea, ha comportato un notevole dispiego di forze del volontariato e della cooperazione. Al di là delle cose che si sono riuscite a fare come scuola di alfabetizzazione, pronto soccorso linguistico, accompagnamento e inserimento degli ‘ospiti’ per la procedura di richiesta di protezione internazionale e inserimento degli stessi nel sistema sanitario nazionale, alcune considerazioni sembrano emergere da chi – come la Cooperativa “Porto Alegre”, la Comunità Missionaria di Villaregia, i mediatori culturali impegnati e i diversi volontari – ha dato il proprio apporto perché questa accoglienza riuscisse almeno nei suoi obiettivi minimali.       La mondialità e in un certo senso la missionarietà è entrata dentro i nostri confini parrocchiali e comunali e non ci ha visto preparati ‘culturalmente’ a questo nuovo approccio, dove l’Altro, il Diverso, lo Straniero non è più distante, tale da giustificare l’offerta o il mercatino per la raccolta fondi, ma è entrato negli spazi ‘nostri’ che pensavamo inviolabili. Dai supermercati, alle uscite delle chiese al semplice vederli nelle nostre piazze a passeggiare e/o a mendicare ci siamo accorti che tutto questo ci rendeva inquieti. Perché l’altro quand’è distante è sempre buono, ma quando entra dove pensavi di essere inviolabile … chissà se anche loro pensano di noi così quando andiamo come turisti o come “predatori” nelle terre d’Africa e/o di altri Paesi?

La nostra risposta

La nostra risposta un po’ affrettata, un po’ emergenziale, si è rivelata incompleta; troppo lo shock culturale a cui noi adulti siamo stati sottoposti! Proteste, presìdi, raccolta firme ‘per non averli più qui’. Bravi credenti che non hanno in mano gli strumenti per pescare idee nuove con le quali affrontare questa emergenza. ‘Ma come? Li manteniamo a 30 euro al giorno e noi siamo con la pensione minima…. Poi vengono a toglierci il lavoro e portano malattie’.

Fermarsi e riflettere, pensare; a questo ci invitava il vescovo Adriano in uno dei suoi commenti proprio sul tema dei profughi. Chi potrà far questo se non la comunità cristiana in quanto tale che si interroga sul senso di ciò che sta accadendo? Poi c’è sempre uno Stato, una Regione, un Comune che non fa il suo dovere … c’è sempre qualcuno che non fa il suo dovere e questo ci serve come scusante per le nostre indolenze o i nostri piccoli orizzonti.

Come potremo uscire da questa che sembra essere una strettoia senza fine? Abbiamo provato a metterci un po’ di fantasia e di … rischio. Ad alcuni è stato proposto un laboratorio di artigianato, ad altri invece di sperimentarsi nell’apprendere alcune semplici tecniche di coltivazione degli orti nostrani, oltre alla frequentazione dei corsi di lingua italiana. Molti hanno detto di sì, altri si sono rifiutati chiedendo e facendo propria la virtù tutta italiana di essere mantenuti. Così abbiamo iniziato a gestire il tempo – che per molti di loro è una faticosissima operazione culturale – governando le giornate, scandendole in tempi di studio della lingua, di riposo, di lavoro e accudimento del vestiario e dell’igiene personale e degli ambienti per imparare a… vivere in Italia! Anche la passeggiata in piazza rientrava in questa socializzazione primaria, anche l’oratorio e i quattro calci al pallone diventavano veri e propri percorsi d’inserimento. Non occorre essere stati in missione per fare su questo un’esperienza di volontariato.

La condivisione con queste persone ci ha resi anche meno ingenui nell’approccio buonista che spesso si ha nel campo delicato dell’integrazione socio culturale. Non siamo chiamati a dare tutto a questi nostri fratelli ; le gare della bontà (vestiti, raccolte cibo, iniziative varie…) non servono; anzi alimentano un assistenzialismo che poi diventa fastidio, quando queste persone restano per mesi nelle nostre zone. Bisogna mettere insieme persone e creare spazi – il più possibile neutri e pubblici (la scuola ad esempio) – dove iniziare un confronto e dire cosa vorrà significare vivere in Italia. È il faticoso percorso verso la ricerca dell’autonomia. (M. C.)

 

Indicazioni per le nostre comunità

1. Organizzare omenti informativi con i Consigli pastorali parrocchiali e /o vicariali per conoscere la situazione anche geo-politica del bacino del Mediterraneo dove hanno origine le migrazioni che stanno interessando le nostre coste e il nostro territorio. Il personale della Caritas e della Comunità Missionaria di Villaregia si rende disponibile per questi incontri.

2. Proporre momenti di incontro con le persone presenti e con le quali – pur nella non stabilità – si possa approfondire un rapporto di amicizia e conoscenza.

3. Proporre alle nostre famiglie di ospitare anche una sola volta a pranzo una persona o due, o una famiglia di richiedenti protezione internazionale per conoscer le storie a volte drammatiche della loro vita.

4. Suscitare volontari – specialmente insegnanti in pensione o giovani studenti di lingue o di scienze della formazione – per un’esperienza d’insegnamento della lingua italiana.

Sono solo alcune indicazioni che però possono servire a creare un primo approccio non pregiudiziale con questi nostri fratelli che provengono da zone di conflitto e che in molti casi hanno visto le loro famiglie distrutte dai conflitti in corso.

Saremo capaci di sperimentarci così per il futuro anche come comunità cristiana?               (m. c.)

Nella foto: uno dei pullman che hanno trasportato a Chioggia, a più riprese, gruppi di profughi.

 

 

dal numero 34 del 14 settembre 2014