SPECIALE PACE IN SIRIA

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SPECIALE PACE IN SIRIA

Appello del papa. Veglia di preghiera il 7/9 alle 21 anche nella nostra cattedrale

“Mai più la guerra!”

Il costo della pace non è mai la guerra

“La mia Siria in ginocchio”

 

 

“Mai più la guerra!”

All’Angelus parole di sofferenza e dolore per la crisi siriana

C’è preoccupazione, angoscia nelle parole di Papa Francesco all’Angelus. Non commenta le letture del giorno, il pranzo con uno dei capi dei farisei e la parabola degli invitati che scelgono i primi posti anche se nel Regno di Dio non ci sono primi, né secondi o terzi posti, non ci sono desideri di grandezza e volontà di primeggiare sugli altri. Tutti sono chiamati a mettersi al loro posto, che in qualche modo è sempre l’ultimo.

Si fa interprete, Francesco, del grido “che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace”. Un grido per dire: “Vogliamo che in questa nostra società, dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra. La pace è un dono troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato”. Grido, ancora, che guarda alla Siria e che auspica la pace nella regione.

È un grido, la pace, che tutti i Papi hanno raccolto, a cominciare da Benedetto XV che, eletto poche settimane dopo l’inizio della grande guerra, scrive la prima enciclica sulla pace “Pacem Dei munus”, e bolla il conflitto mondiale, nella nota del primo agosto 1917, come inutile strage, definendo la guerra il “suicidio dell’Europa civile”. Pio XII, da nunzio a Berlino, ha visto crescere il potere politico e militare di Hitler. Dirà ai profughi e rifugiati, il 12 marzo 1944, che le sue parole “per scongiurare il flagello della guerra” sono rimaste inascoltate: “Non vi fu sforzo che non facessimo, né premura che tralasciassimo, perché le popolazioni non incorressero negli orrori della deportazione e dell’esilio”. Giovanni XXIII alla pace dedica un’enciclica che risente del clima della guerra fredda e del braccio di ferro tra Unione Sovietica e Stati Uniti per i missili a Cuba: “Giustizia, saggezza ed umanità – scrive nella ‘Pacem in terris’ – domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti; si mettano al bando le armi nucleari; e si pervenga finalmente al disarmo integrato da controlli efficaci”.

Paolo VI è il primo Papa che parla al Palazzo di Vetro dell’Onu e grida il suo “mai più la guerra”. Si fa interprete “dei morti e dei vivi; dei morti, caduti nelle tremende guerre passate sognando la concordia e la pace del mondo; dei vivi, che a quelle hanno sopravvissuto portando nei cuori la condanna per coloro che tentassero rinnovarle”.

Giovanni Paolo II, anche lui sarà alle Nazioni Unite rinnovando il grido di Papa Montini. Ma a Berlino – attraverserà la Porta di Brandeburgo, la porta della libertà, la chiamerà – parlerà ai berlinesi e al mondo, dopo la fine dei regimi, per dire: “La libertà non è un lasciapassare. Chi trasforma la libertà in un lasciapassare le ha già inferto un colpo mortale. L’uomo libero è tenuto alla verità, altrimenti la sua libertà non è più concreta di un bel sogno, che si dissolve al risveglio”. Più volte Benedetto XVI ha chiesto la fine dei conflitti, e il ritorno alla pace soprattutto in Medio Oriente, non ultimo il viaggio a Beirut.

Oggi è Francesco che guarda, ancora una volta, al Medio Oriente, alla Siria. Il suo “mai più la guerra” parla di sofferenza, devastazione, dolore che “ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese, specialmente tra la popolazione civile e inerme. Pensiamo: quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro”. Condanna “con particolare fermezza l’uso delle armi chimiche”. E dice: “C’è un giudizio di Dio e anche un giudizio della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire. Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza”. Così chiede d’intraprendere la strada del negoziato: “Non è la cultura dello scontro, la cultura del conflitto quella che costruisce la convivenza nei popoli e tra i popoli, ma questa: la cultura dell’incontro, la cultura del dialogo; questa è l’unica strada per la pace. Il grido della pace si levi alto perché giunga al cuore di tutti e tutti depongano le armi e si lascino guidare dall’anelito di pace”. Per questo chiede una giornata di digiuno e di preghiera per la pace in Siria e in Medio Oriente, il 7 settembre (anche la diocesi di Chioggia aderisce con una Veglia presieduta dal vescovo alle 21 in cattedrale, ndr): “L’umanità ha bisogno di vedere gesti di pace e di sentire parole di speranza e di pace”.    (Fabio Zavattaro)

 

 

Il costo della pace non è mai la guerra

Condanna della violenza e appello al dialogo. L’invito a tutti a costruire da piazza S. Pietro il 7 settembre una catena di pace

Anche la pace ha un costo. Ma ce n’è uno sempre inaccettabile e si chiama guerra. “Mai più la guerra” ha ripetuto ieri Papa Francesco, sulle orme di due grandi pontefici, Giovanni XXIII e Paolo VI che le guerre le videro da vicino. Due uomini di Chiesa che, testimoni privilegiati del “secolo breve”, subirono gli orrori della Prima e della Seconda guerra mondiale. I due primi conflitti moderni e globali che hanno preceduto la pace nel mondo, pagata col prezzo altissimo di decine di milioni di morti. Caduti sui campi di battaglia, ma anche sotto il fungo atomico di Hiroshima e Nagasaki. Per non parlare dello scandalo disumano della Shoah. E come dimenticare, poi, la guerra come “inutile strage” di Benedetto XV dinanzi al Primo conflitto mondiale? Tutto questo ci fa dire che c’è una solida coerenza e continuità, nel pontificato di Francesco, nella difesa strenua della pace. L’intervento intenso e tempestivo di Papa Francesco rivela la solida consapevolezza della gravità della crisi siriana come crisi globale. La prima guerra globale – Dio non voglia – del nuovo Millennio. Un rischio di guerra che merita le parole severissime del Papa, forse le più taglienti di questo pontificato: “C’è un giudizio di Dio e anche della storia sulle nostre azioni a cui non si può sfuggire. Non è mai l’uso della violenza che porta alla pace. Guerra chiama guerra, violenza chiama violenza”. E qui torna la valutazione sul costo della pace. Quel costo che certamente il dittatore di Damasco, espressione della minoranza sciita siriana, non intende assolutamente pagare perché si vedrebbe sfuggire un regno non dinastico, ereditato da un padre violento e sanguinario. Quel costo che i ribelli, musulmani sunniti come la maggioranza dei siriani, non intendono assolutamente versare dopo essersi illusi di poter chiudere i conti, presto e facilmente, con il regime satrapico di Bashar al-Assad. Quel costo che i Grandi del mondo, come le potenze dell’area, non intendono accettare perché negoziare la pace è difficile. E perché le contrapposizioni, come ricorda a tutti il Papa, sono cieche. Incapaci innanzitutto di vedere le sofferenze dei popoli e di percepire sino in fondo l’orrore per l’uso delle armi chimiche. Un salto inaccettabile e orrorifico del conflitto. Dinanzi a questo rischio mortale che corre il mondo moderno, cioè di veder scivolare la polveriera mediorientale nel vortice di un conflitto difficilmente contenibile in quell’area, ecco Papa Francesco scegliere, senza incertezza, la strada dell’appello alle coscienze di chi può fermare la corsa verso le armi. E poi la sua decisione di parlare a tutti di pace, perché la pace è di tutti. È un bene incommensurabile per tutti e per i poveri in particolare. Dei cattolici come degli altri cristiani, ma anche di tutti gli uomini che credono. Così come dei non credenti. A tutti chiede di costruire, a partire da piazza San Pietro la sera del 7 settembre, una catena umana perché chi deve decidere sappia da che parte stanno i popoli. E soprattutto chiede ai credenti un atto antico, quello del digiuno che affina la sensibilità, acutizza la consapevolezza, rende più carnale la partecipazione. Ci fa essere, soprattutto noi occidentali più sazi, per un giorno più vicini a quanti manca tutto. A cominciare da quella pace nella quale noi ci siamo adagiati da quasi settant’anni, ma che in un attimo potremmo perdere a causa di una guerra nel cuore del Mediterraneo. Il Papa ci ricorda che quanto accade in Siria è anche affar nostro. E nessuno pensi, con superficialità, che il Papa non conosca bene il peso delle responsabilità e delle colpe che gravano sugli uni e sugli altri protagonisti della crisi siriana. Ma il Papa, uomo di pace, non può stare che dalla parte della pace. Ad ogni costo e con la sola arma di cui dispone: la preghiera. Perché questo è quello che tocca al Papa e ai credenti. Lui ha la forza per chiedere “alle parti in conflitto di ascoltare la voce della propria coscienza, di non chiudersi nei propri interessi, ma di guardare all’altro come a un fratello e intraprendere con coraggio e con decisione la via dell’incontro e del negoziato”. Incontrarsi, dialogare e negoziare è ancora possibile. (Domenico Delle Foglie)

 

 

Una voce dall’interno

“La mia Siria in ginocchio”

Una generazione di bambini senza domani

Il drammatico racconto di una giornalista freelance italo-siriana attraverso i campi profughi e le città bombardate. Un viaggio pieno di rischi, ma necessario “per non far morire la verità”. Ad Aleppo la situazione è desolante: la città è divisa in zone liberate e in altre sotto il controllo del regime. Le strade principali sono interrotte da posti di blocco e sui punti più alti della città sono appostati i cecchini. Macerie ovunque. La popolazione convive con le esplosioni e gli spari .

A ventinove mesi dall’inizio della repressione in Siria sono finalmente riuscita a organizzare il mio primo viaggio nella martoriata terra delle mie origini. Due settimane in cui ho visitato campi profughi e centri di riabilitazione in Turchia e altri campi profughi, centri d’accoglienza e città bombardate all’interno del territorio siriano, tra la periferia di Idlib, la città di Sarmada e la millenaria città di Aleppo, che ha dato i natali ai miei genitori.

Un viaggio che ho fortemente voluto e che sono riuscita a intraprendere come freelance grazie a una rete di contatti che nei lunghi mesi di repressione sono riuscita a instaurare via web con l’interno e grazie all’appoggio di associazioni umanitarie che operano sul territorio. “Non hai pensato ai tuoi figli prima di partire?”, mi hanno chiesto in molti. È proprio pensando a loro che sono partita: ho a cuore il destino dei bambini siriani esattamente come ho a cuore il destino dei miei figli. La vita, la sicurezza, il diritto degli uni è la garanzia della vita, della sicurezza e del diritto degli altri: siamo figli della stessa umanità.

Raccontare e tradurre le notizie delle stragi, dei bombardamenti, delle esecuzioni, dell’assedio, della fuga, delle privazioni, della sofferenza della popolazione civile stando a casa, grazie al lavoro coraggioso dei citizen reporter siriani, che operano come corrispondenti anche nelle zone più impenetrabili, non mi bastava più. Volevo partire per vedere con i miei occhi e provare sulla mia pelle cosa significa tutto questo, per riuscire a raccontare in modo ancora più fedele, puntuale. Ho pensato ai colleghi che in Siria hanno perso la vita, ho pensato alle loro famiglie, ho pensato a Domenico Quirico, alle sue figlie; come giornalista italo-siriana non potevo non partire.

Ho presto constatato di persona che essere giornalisti in Siria significa essere un pericolo per gli altri e per se stessi: il giornalista è un testimone scomodo, un nemico del regime perché racconta al mondo ciò che non si deve far sapere, un elemento sgradito al potere, ed è anche un potenziale pericolo perché trasmette immagini e realtà che potrebbero mettere a rischio le persone ritratte. Ma un giornalista, per la popolazione che subisce in silenzio, è uno strumento importante per far arrivare la loro voce al mondo, una “risorsa per non far morire la verità”. Il fatto di essere bilingue, di parlare la lingua del posto mi ha certamente aiutata a comprendere meglio le situazioni in cui mi sono ritrovata durante le diverse tappe del mio viaggio.

Ho cominciato con alcuni incontri a Reihanly, una città del profondo Sud della Turchia, che confina con la Siria. Lì ho visitato centri di riabilitazione per uomini e donne siriani feriti dalle bombe o dai cecchini. Alcuni sono completamente paralizzati e sono in attesa di delicati interventi chirurgici; altri hanno bisogno di protesi, anche per più arti. Il più giovane che ho intervistato ha 16 anni: è completamente immobilizzato in conseguenza delle schegge di un ordigno che gli hanno distrutto la spina dorsale. A Reihanly ci sono numerose famiglie siriane, alcune in affitto, altre ospiti di strutture di accoglienza; ci sono scuole per i profughi e centri dedicati all’accoglienza di bambini orfani. In questa cittadella, i cui abitanti sono prevalentemente agricoltori e autotrasportatori, le conseguenze del conflitto in Siria si sentono profondamente. La gente, ospitale e accogliente nei confronti dei profughi, ha comunque paura, anche in conseguenza delle autobombe fatte esplodere lo scorso maggio. Al ritorno dalla Siria ho visitato il campo profughi di Altinoz, che ospita centinaia di famiglie siriane da oltre due anni.

Il viaggio in Siria è stato un continuo spostamento nel vivo di un dramma che non accenna a risolversi. Ho visitato diversi campi profughi, incontrando le persone che vi abitano e ascoltando le loro drammatiche storie. Sono stata anche in alcuni centri di accoglienza per sfollati: ex scuole, palestre, strutture abbandonate che sono diventate il rifugio di famiglie che hanno dovuto abbandonare le loro case in seguito ai bombardamenti. La situazione che ho riscontrato ad Aleppo è drammatica; la città, una delle più antiche al mondo, i cui reperti storici e la cui architettura testimoniano una storia gloriosa e ricca, è divisa in zone ancora sotto il controllo del regime e zone liberate. Le strade principali sono interrotte da posti di blocco e sui punti più alti della città sono appostati i cecchini. Lo scenario è desolante: ovunque ci sono macerie, le scuole, gli ospedali e i negozi sono chiusi; la gente convive con le esplosioni e gli spari. Tutti, bambini e adulti, mi dicono che il loro terrore più grande sono gli aerei: il loro rumore arriva a rompere i timpani e il loro operato è apocalittico. Aleppo, come le altre città siriane, cerca di sopravvivere; i volontari assistono i più deboli e cercano di riempire quel vuoto lasciato dalle istituzioni, praticamente inesistenti.

La Siria è un Paese in ginocchio, dove tutte le componenti della popolazione, di ogni etnia e religione, stanno subendo una pesante repressione, che ha causato oltre 130mila morti, due milioni di profughi, 8 milioni di sfollati, 250mila persone scomparse. Più di due anni fa le persone che manifestavano contro il regime hanno chiesto l’istituzione di una “no fly zone” e l’apertura di corridoi umanitari. Oggi la comunità internazionale risponde con la prospettiva di un nuovo fronte di bombardamenti. Un’intera generazione di bambini siriani rischia di non conoscere la parola domani. (Asmae Dachan)

 

 

 

da NUOVA SCINTILLA 33 dell’8 settembre 2013