Incontro con don Salvatore Ferdinandi

Facebooktwitterpinterestmail

Formazione Caritas. Indicazioni del responsabile nazionale agli operatori della diocesi

Incontro con don Salvatore Ferdinandi

Pensare la Carità, vivere la Chiesa. Anzi pensare la Carità come dimensione inscindibile dell’essere Chiesa dentro uno spazio – il territorio – e dentro un tempo, il nostro, e nel confronto con la modernità nella sua crisi: si è così dipanato l’intervento di don Salvatore Ferdinandi, responsabile per Caritas Italiana dell’Ufficio Formazione Caritas parrocchiali e operatori Caritas. Circa una settantina i partecipanti (nella foto) ad un incontro che era specificatamente formativo, cioè ‘identitario’, che poneva la questione non su cosa fa l’operatore della Caritas, ma su cosa è la figura di chi agisce in parrocchia o nelle unità pastorali come suscitatore di strategie per pensare l’agire caritativo. Discorso non facile per il tipo di mentalità che confonde e crea strani mix tra carità, beneficenza, solidarietà ed elemosina. La crisi dell’idea di carità o la sua poca chiarezza fa tutt’uno con una ancora non recepita idea di Chiesa che il Concilio Vaticano II ci ha consegnato, ma che ancora sembra essere in fase di gestazione, molto distante dalla Chiesa ‘nuova’ che tanti credenti auspicano. Dato sensibile e nervo

scoperto, la dimensione della carità risente della insopprimibile tentazione della delega agli altri, agli specialisti in particolare, e sembra emergere oggi nella coscienza dei credenti una nuova figura di buon samaritano che vede i drammi al lato del sentiero e, tirando avanti, si ferma al primo posto Caritas per dire che tocca a loro andare a soccorrere il malcapitato, così la coscienza singola e comunitaria si acquieta dentro la consapevolezza erronea che la buona azione si è fatta. Oggi questa delega si chiama filantropia, beneficenza, elemosina, scatta con un terremoto, con un evento di tragicità dovuto alla natura o coscienza preistorica dell’uomo (guerre) e diventa una sorta di penitenza laica e singola con la quale si fa qualcosa per gli altri. Tanti sono i modi che la crisi della dimensione comunitaria della carità ha escogitato per sentirci tutti più buoni. Anche chi lavora in Caritas non sfugge alla tentazione di sentirsi erroneamente a posto perché si è fatto del bene o si è distribuito qualcosa ricevendo magari anche dei sinceri grazie. Riprendere la carità non solo come gesto individuale, ma come gesto di comunità ripropone oggi al centro dell’attenzione la nostra coscienza di Chiesa, il ruolo di una comunità e di una parrocchia nel territorio di una municipalità e delle strutture socio sanitarie nelle loro articolazioni di servizio e di capacità di essere per le fasce deboli della popolazione. Ciò implica non tanto e non solo pensare alla carità o alla Caritas, pensare alla Chiesa, a quale idea di Chiesa si sta maturando dentro gli ultimi sprazzi di una società e di una cultura del vivere oramai non più cristiana. L’agire caritativo della Chiesa non può non considerare che anche il fare la carità in una situazione non più riconducibile a coordinate vicine alla fede cristiana risulta essere residuale e di poco conto: ci riconduce lentamente ma inesorabilmente all’insignificanza. Ricominciare da una Chiesa consegnata dal Vaticano II e dal modo con cui il Concilio ha affrontato il rapporto con il mondo e la storia, non per dire le stesse cose ma per applicare la stessa metodologia: vedere con occhi e mente lucida; discernere alla luce della Parola; agire nello stile di una dimensione ecclesiale e di condivisione. C’è ancora molto da fare per la nostra chiesa… (m. c.)

 

 

 

da NUOVA SCINTILLA 6 del 10 febbraio 2013