Speciale INCONTRA quaresima di fraternità

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Speciale INCONTRA quaresima di fraternità

Quaresima di fraternità e di speranza

“In Cambogia vivevo senza frigorifero…”

“Preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana”

La vita della missione

Il lavoro prosegue

In memoria dei Missionari Martiri

Incontro sulla “Porta Fidei “

Tra due fuochi

Riconciliare l’umanità

Il Messaggio di papa Benedetto XVI per la Quaresima 2013

 

 

 

 

Quaresima di fraternità e di speranza

In questo numero di Incontra troverete una breve presentazione di P. Alberto Caccaro, neodirettore di Mondo e Missione, che verrà a trovarci il 7 marzo per parlarci della fede in Oriente. Lui ha vissuto molti anni in Cambogia e conosce bene la situazione della Chiesa in Asia. Parlare di Oriente è parlare di Asia Bibi,del Pakistan e di tutta la situazione dei cristiani in quelle regioni. Ma noi parliamo di Oriente anche perché come Chiesa Triveneta abbiamo aperto e sosteniamo la missione di Chang Mai e dunque c’è una nota sulla nuova esperienza pastorale di Lamphun,che sosterremo durante la campagna di Quaresima di Fraternità. Quest’anno continueremo anche a sostenere il Centro missionario del Burundi dove lavorano le nostre Suore. Quindi in Quaresima abbiamo due opere da aiutare: Thailandia e Burundi.

Da non dimenticare poi la Veglia dei missionari martiri, venerdì 22 marzo.

Il Centro Missionario Diocesano sabato 23 febbraio propone un incontro sulla Porta Fidei, tenuto da don Angelo Busetto. (don Lino Mazzocco)

 

 

Padre A. Caccaro, nuovo direttore di “Mondo e Missione” sarà a Sottomarina il 7 marzo alle 21 in teatro S. Martino

“In Cambogia vivevo senza frigorifero…”

«In Cambogia vivevo senza frigorifero. A un certo punto me lo regalarono. Mi costava 15 dollari di elettricità al mese. Troppo. Potevo farne a meno. Oggi dirigo il Centro Missionario Pime di Milano e mi serve un milione di euro per ristrutturare uno stabile…». Dai confini del mondo è tornato nel bel mezzo della crisi della civiltà occidentale. Padre Alberto Caccaro la prende con ironia, perché la sua missione è cambiata moltissimo. Ma non troppo. «Non c’è missione che non sia globale, non c’è crisi che non sia globale. Entrambe hanno a che fare con l’uomo. Qui a Milano non mi sento meno missionario, anche se, inutile dirlo, desidero tornare presto nella mia Cambogia. Ma non c’è “stare” che non sia anche “partire”. Non c’è Est né Ovest. Tutto attiene all’umano. Così come i risultati non si misurano con i numeri. Ciò che valorizza il nostro fare è che, come diceva Peguy, “Lui è qui, come il primo giorno”».

La storia di Padre Caccaro l’avevamo raccontata tramite le sue lettere da Prey Veng (raccolte nel libro Cento storie di amori, recentemente pubblicato da Lindau), il villaggio dove è stato tra il 2001 e il 2011. Oggi ha presentato l’attività del prossimo anno del Centro Missionario milanese di cui è direttore dallo scorso primo giugno. Lo ha fatto con un’immagine forte, presa a prestito dal cardinale Carlo Maria Martini: «Nel sepolcro di Gesù, la notte di Pasqua, si compie il gesto di comunicazione più radicale di tutta la storia dell’umanità. Lo Spirito Santo, vivificando Gesù risorto, comunica al suo corpo la potenza stessa di Dio. Comunicandosi a Gesù, lo Spirito si comunica all’umanità intera e apre la via a ogni comunicazione autentica». Quella del Centro del Pime, ha detto Padre Caccaro, è un’attività di comunicazione che si dettaglia in diverse forme, ma come origine ha sempre quell’atto comunicativo di Dio: «Per questo possiamo comunicare vita e speranza».

«Il nostro agire vuole essere ispirato dalla fede, intesa come esperienza di conoscenza», conclude padre Caccaro: «Chi conosce Cristo, infatti, afferra la realtà in tutti i suoi fattori. Le categorie di “credente” e “non credente” non sono di tipo morale, ma attengono al campo della conoscenza».

Le attività del Centro vanno dalla comunicazione in senso stretto (pubblicazioni cartacee e online), ai progetti di educazione (l’animazione missionaria, l’attività nelle scuole e l’attività del museo di via Mosè Bianchi), fino alla solidarietà (sostegno a distanza e progetti di aiuto allo sviluppo). In particolare è stata presentata la nuova veste della rivista Mondo e Missione e il rinnovato sito internet di informazione http://www.missionline.org/, che si affianca a http://www.pimemilano.com/. Un’attività molto vivace che, nel suo complesso, raggiunge circa 400mila persone ogni anno tra abbonati alla rivista, adozioni a distanza, visitatori del museo, benefattori e incontri in occasione di manifestazioni.

P. Alberto Caccaro sarà presente a Sottomarina, invitato dal CMD, il 7 marzo alle ore 21 nel teatro San Martino per parlarci di “Testimonianze di fede in oriente”. (don Lino Mazzocco)

 

 

 

 

 

 

“Preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana”

Pakistan. La toccante lettera di Asia Bibi, in prigione perché cristiana

Asia Bibi, una madre di cinque figli, è in carcere da tre anni ed è stata condannata a morte perché cristiana. Eppure oggi, a 1700 anni dall’Editto di Milano, i cristiani nel mondo continuano ad essere perseguitati e massacrati per la loro fede in Gesù Cristo. Asia Bibi ha scritto dal carcere una lettera e chiede solo di tornare dai suoi figli. Un testo commovente, una testimonianza straordinaria di fede e amore. Il quotidiano “Avvenire” ha pubblicato la sua lettera invitando alla mobilitazione per chiedere la sua liberazione scrivendo al Presidente pachistano. Il quotidiano dei vescovi italiani ha pubblicato anche un’intervista ad Ashiq Masih, marito di Asia Bibi, che ha affermato: “Non perde la speranza, sa di essere in cella solo per il suo credo”.

 

Ecco la lettera di Asia Bibi.

Se mi convertissi sarei libera, preferisco morire cristiana. Scrivo da una cella senza finestre.

Mi chiamo Asia Noreen Bibi. Scrivo agli uomini e alle donne di buona volontà dalla mia cella senza finestre, nel modulo di isolamento della prigione di Sheikhupura, in Pakistan, e non so se leggerete mai questa lettera. Sono rinchiusa qui dal giugno del 2009. Sono stata condannata a morte mediante impiccagione per blasfemia contro il profeta Maometto. Dio sa che è una sentenza ingiusta e che il mio unico delitto, in questo mio grande Paese che amo tanto, è di essere cattolica. Non so se queste parole usciranno da questa prigione. Se il Signore misericordioso vuole che ciò avvenga, chiedo agli spagnoli di pregare per me e intercedere presso il presidente del mio bellissimo Paese affinché io possa recuperare la libertà e tornare dalla mia famiglia che mi manca tanto. Sono sposata con un uomo buono che si chiama Ashiq Masih. Abbiamo cinque figli, benedizione del cielo: un maschio, Imran, e quattro ragazze, Nasima, Isha, Sidra e la piccola Isham. Voglio soltanto tornare da loro, vedere il loro sorriso e riportare la serenità. Stanno soffrendo a causa mia, perché sanno che sono in prigione senza giustizia. E temono per la mia vita. Un giudice, l’onorevole Naveed Iqbal, un giorno è entrato nella mia cella e, dopo avermi condannata a una morte orribile, mi ha offerto la revoca della sentenza se mi fossi convertita all’islam. Io l’ho ringraziato di cuore per la sua proposta, ma gli ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cristiana che uscire dal carcere da musulmana. «Sono stata condannata perché cristiana – gli ho detto –. Credo in Dio e nel suo grande amore. Se lei mi ha condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui». Due uomini giusti sono stati assassinati per aver chiesto per me giustizia e libertà. Il loro destino mi tormenta il cuore. Salman Taseer, governatore della mia regione, il Punjab, venne assassinato il 4 gennaio 2011 da un membro della sua scorta, semplicemente perché aveva chiesto al governo che fossi rilasciata e perché si era opposto alla legge sulla blasfemia in vigore in Pakistan. Due mesi dopo un ministro del governo nazionale, Shahbaz Bhatti, cristiano come me, fu ucciso per lo stesso motivo. Circondarono la sua auto e gli spararono con ferocia. Mi chiedo quante altre persone debbano morire a causa della giustizia. Prego in ogni momento perché Dio misericordioso illumini il giudizio delle nostre autorità e le leggi ristabiliscano l’antica armonia che ha sempre regnato fra persone di differenti religioni nel mio grande Paese. Gesù, nostro Signore e Salvatore, ci ama come esseri liberi e credo che la libertà di coscienza sia uno dei tesori più preziosi che il nostro Creatore ci ha dato, un tesoro che dobbiamo proteggere. Ho provato una grande emozione quando ho saputo che il Santo Padre Benedetto XVI era intervenuto a mio favore. Dio mi permetta di vivere abbastanza per andare in pellegrinaggio fino a Roma e, se possibile, ringraziarlo personalmente. Penso alla mia famiglia, lo faccio in ogni momento. Vivo con il ricordo di mio marito e dei miei figli e chiedo a Dio misericordioso che mi permetta di tornare da loro. Amico o amica a cui scrivo, non so se questa lettera ti giungerà mai. Ma se accadrà, ricordati che ci sono persone nel mondo che sono perseguitate a causa della loro fede e – se puoi – prega il Signore per noi e scrivi al presidente del Pakistan per chiedergli che mi faccia ritornare dai miei familiari. Se leggi questa lettera, è perché Dio lo avrà reso possibile. Lui, che è buono e giusto, ti colmi con la sua Grazia.

(Asia Noreeen Bibi – Prigione di Sheikhupura, Pakistan)

 

 

La vita della missione

Thailandia – Lamphun. L’importanza del dialogo in un contesto multi religioso

Il nucleo fondante della comunità cristiana di Lamphun è il gruppo delle famiglie cattoliche qui residenti da parecchi anni. Gruppo che costruisce un ambiente di accoglienza per i giovani lavoratori, per gli studenti universitari, per i birmani immigrati.

La presenza di moltissimi giovani cattolici nelle fabbriche del “distretto industriale di Lamphun” è una sfida improba. È difficile pensare che siano la base della comunità. La quasi totalità si ferma a Lamphun per pochi anni; i ritmi di lavoro sono estenuanti (lavorano anche alla domenica). Il clima che li circonda è consumistico. Mancando per loro un luogo di incontro e fraternizzazione, alla domenica si ritrovano al “BigC”, ipermercato della zona, oppure in qualche locale-Karaoke. Di fatto il numero dei lavoratori partecipanti alle messe è piccolo e si vedono sempre facce nuove, mentre i precedenti scompaiono.

Sarebbe necessario puntare a costituire un gruppo giovani che, sostenuti nella vita cristiana, possano essere missionari nei loro ambienti, nelle fabbriche.

L’arrivo a fine ottobre di don Giuseppe apre nuove prospettive su questo campo.

Il cammino per l’annuncio è il dialogo, come da indicazioni dei vescovi asiatici: “incontro tra religioni, tra culture e incontro con la gente specialmente i poveri”.

Questa del dialogo non è scelta, si impone per la situazione:

– si impone perché a Lamphun tutte le famiglie cattoliche sono interreligiose (il marito o la moglie o i figli sono buddhisti);

– il dialogo è un fatto che si impone per la situazione numerica della comunità cattolica (trenta cattolici residenti stabili su una popolazione di 450.000 abitanti la provincia);

– infine appare chiaro da molti aspetti che Lamphun ha una forte, orgogliosa religiosità buddhista.

Il metodo di annuncio è la testimonianza: come dicono i vescovi asiatici: “raccontare la storia di Gesù nelle nostre vite”.

Stiamo cercando di farci presenti a quanti più avvenimenti sociali e religiosi possibili per “abituare tutti a considerarci loro fratelli” (Charles de Foucauld).

Al mercato, negli uffici, alle feste, nelle visita ai templi, nelle conversazioni con monaci e gente del popolo ci presentiamo come cattolici e come persone interessate a conoscere la loro tradizione religiosa, chiedendo informazioni su tradizioni, pratiche, significati.

Dal Natale scorso a chi ci incontra possiamo dire che siamo preti cattolici, dal momento che abbiamo un “tempio”: difatti per loro un monaco è monaco se appartiene a un tempio e a un luogo ben visibile.

Stiamo facendo esercizio di contemplazione della presenza del Signore in questo ambiente e in queste vite e coltiviamo la certezza che Dio è Padre loro anche se non lo conoscono.

Un passo ulteriore nel cammino della comunità è avvenuto la scorsa Pasqua quando il Vescovo mons. Francesco Saverio Virà ha elevato la comunità di Lamphun a Parrocchia di S. Francesco di Assisi in Lamphun. Don Giuseppe Berti ne è il parroco e don Piero il collaboratore.

 

 

Serve di Maria Addolorata di Chioggia. Dispensario in Burundi

Il lavoro prosegue

Lo scorso anno (2012) si è dato avvio al progetto di costruzione di un dispensario medico “Maria madre della vita” nella zona di Bwoga in periferia della città di Gitega in Burundi dove la Congregazione delle Serve di Maria Addolorata di Chioggia nel settembre del 2008 ha aperto una missione per richiesta del vescovo locale Simon Ntamwan.

Nel mese di maggio si è provveduto, con grande partecipazione delle persone della collina, al taglio e allo sradicamento degli alberi presenti nell’area individuata per la costruzione del dispensario. È molto sentito e praticato in Burundi il lavoro comunitario, in modo particolare il sabato è dedicato ai servizi della comunità. Dopo la cerimonia religiosa di inaugurazione dei lavori con la deposizione delle medaglie benedette della Madonna della Navicella negli angoli delle fondamenta di tutti i blocchi di cui si compone il dispensario, si è iniziata la costruzione con circa quaranta operai. Di grande aiuto, poi, sono stati i vari volontari che, con le diverse specializzazioni di ciascuno, hanno dato un prezioso contributo agli operatori locali. Il progetto, la cui costruzione prevede uffici, sala di attesa e accoglienza, ambulatori, sala parto, sala operatoria, camere per la degenza, servizi igienici e docce, comprende inoltre anche la costruzione di un edificio per il personale medico e paramedico, cucina aperta, refettorio, lavanderia e stireria. Così pure per i familiari dei malati ricoverati che abbisognino di ospitalità sono stati ricavati alcuni alloggi.

La cura del corpo è necessaria e importante, ma noi siamo chiamate a essere accanto ai sofferenti come Maria, portando la consolazione della fede e presentando loro il Medico per eccellenza che è Gesù: per questo motivo la struttura non può mancare di quel luogo in cui in modo tangibile, c’è Gesù Eucaristia: una cappella. Sarà di forma circolare, immersa nel verde del parco, con la possibilità di assistere alle celebrazioni anche dall’esterno, secondo la tradizione locale.

La Congregazione, che ha accolto questa richiesta da parte del vescovo di Gitega, non avrebbe potuto realizzarla senza l’aiuto di tante persone e istituzioni che hanno riconosciuto la bontà del progetto e alle quali diciamo il nostro vivo grazie, anche a nome di coloro che ne usufruiranno ricavandone grande beneficio. In particolare un grazie alla Diocesi di Chioggia che fin dall’inizio ha dimostrato una grande sensibilità e in vari modi ci ha sostenuto. Ora, anche se la costruzione muraria è a buon punto, resta da dotare questi edifici delle strumentazioni necessarie, e siamo certe che la Provvidenza continuerà a dimostrare che il progetto lo segue Dio, al quale continuiamo ad affidare anche il resto dell’opera.

suor Ada Nelly Velázquez Escobar

 

 

 

 

In memoria dei Missionari Martiri

Il 24 marzo 1980, mentre celebrava l’Eucaristia, venne ucciso mons. Oscar A. Romero, Vescovo di San Salvador nel piccolo stato centroamericano di El Salvador.

La celebrazione annuale di una Giornata di preghiera e digiuno in ricordo dei missionari martiri, il 24 marzo, prende ispirazione da quell’evento sia per fare memoria di quanti lungo i secoli hanno immolato la propria vita proclamando il primato di Cristo e annunciando il Vangelo fino alle estreme conseguenze, sia per ricordare il valore supremo della vita che è dono per tutti.

Fare memoria dei martiri è acquisire una capacità interiore di interpretare la storia oltre la semplice conoscenza.

Anche quest’anno la nostra diocesi celebra la giornata dei missionari martiri venerdì 22 marzo alle ore 21 presso la basilica di San Giacomo a Chioggia.

 

 

 

 

 

Incontro sulla “Porta Fidei “

Il Centro Missionario diocesano invita tutti i gruppi parrocchiali ad un pomeriggio di riflessione ed amicizia sabato 23 febbraio dalle ore 15 alle ore 17 presso la parrocchia Madonna di Lourdes. Don Angelo Busetto ci presenterà la “Porta fidei” in riferimento alla dimensione missionaria della Chiesa.

 

 

 

Siria e Giordania. La drammatica situazione dei cristiani

Tra due fuochi

“Il vento della primavera araba ora comincia a farsi sentire anche in Giordania che rischia di cadere, dopo la Siria. E le conseguenze sarebbero devastanti per la già precaria stabilità di questa regione”. È preoccupato padre Butros Nimeh, parroco della chiesa siro-ortodossa di Betlemme. Alle elezioni per il nuovo Parlamento nel regno hashemita, in programma per il 23 gennaio il religioso auspicava che a prevalere siano candidati moderati e dalla coscienza retta. Ma la mente di padre Nimeh non si ferma solo alla Giordania: va diretta alla “cara” Siria dove vivono molti suoi amici e confratelli. “Le notizie – dice a Daniele Rocchi del Sir che lo ha incontrato nella sua piccola chiesa, nella parte antica della città – che arrivano dalla Siria sono brutte. Il popolo soffre, i cristiani locali soffrono non solo per la guerra ma anche per la loro fede”.

Padre Nimeh, i cristiani soffrono due volte?

“In Siria sta accadendo la stessa cosa di altri Paesi arabi dove vediamo i fondamentalisti islamici fronteggiare e sconfiggere con la forza i governi locali. Dicono che vogliono cambiare la situazione del popolo che non è buona. Si tratta di un conflitto economico e politico dai connotati religiosi. La religione viene usata come detonatore di tensioni e di violenza. Guardiamo cosa è accaduto in Iraq negli ultimi venti anni. In queste due decadi oltre un milione di cristiani hanno lasciato quel Paese. La stessa cosa, adesso, si sta verificando in Siria. Siamo tra due fuochi”.

Intende dire che i cristiani stanno pagando il prezzo dello scontro tra sciiti e sunniti?

“Sciiti e sunniti fanno capo a potenze regionali quali Iran e Arabia saudita che li controllano come avessero un telecomando tra le mani. E a tremare sono le sorti di questa area strategica del mondo ricca di materie come il petrolio”.

Che notizie le giungono dai suoi fedeli e confratelli rimasti in Siria?

“Le informazioni fornite dai nostri confratelli e dal patriarcato siro-ortodosso che ha sede in Siria ci parlano di grandi sofferenze del popolo. I cristiani stanno pagando il prezzo di questa guerra, che è il sangue della nostra gente, i suoi luoghi, le sue chiese, le sue case. Ci sono zone della Siria come Homs e Aleppo che soffrono maggiormente la guerra, mentre altre registrano una calma relativa. Tra i combattenti anti-Assad moltissimi provengono dall’estero, sono mercenari pagati da altri Paesi. I cristiani non vogliono questa guerra. Siamo contrari, ma ne soffriamo le conseguenze. Vogliamo che si depongano le armi e si dialoghi per il bene del Paese”.

Teme per il futuro dei cristiani in Siria?

“Sotto il regime di Assad i cristiani erano benvoluti, ma adesso non sappiamo cosa accadrà dopo di lui. Cosa sarà dei cristiani se i partiti fondamentalisti islamici dovessero, in futuro, salire al governo? I fondamentalisti – lo stiamo vedendo in Egitto con i Fratelli musulmani – non separano religione e politica. Questi due aspetti non possono camminare insieme in un Paese democratico. Non si può governare con il Corano. Cosa hanno a che vedere i cristiani con la Sharia? Il futuro è oscuro per i cristiani in Siria. Con un governo saldamente in mano ai fondamentalisti islamici non ci sarà libertà e libertà religiosa in particolare. E a preoccuparsi non sono solo i cristiani ma anche tutti quei fedeli musulmani moderati e aperti al dialogo e alla tolleranza”.

Cosa perderebbe la Siria, e con essa il Medio Oriente, se la minoranza cristiana dovesse ulteriormente indebolirsi?

“I cristiani sono una parte importante della popolazione mediorientale ed è importante che vi restino. Sfortunatamente né gli Usa né l’Unione europea comprendono questa cosa. I cristiani hanno la vocazione a intessere dialogo, costruire ponti di comprensione, stimolare il rispetto dei diritti e la tolleranza. È la nostra storia qui in questa terra. I partiti fondamentalisti islamici governeranno il Medio Oriente con il sostegno di Usa e Ue. I popoli lo sanno ma i loro governi no. E questo è grave”.

 

 

 

 

Benedetto XVI al Corpo diplomatico: in dialogo con tutte le nazioni del mondo

Riconciliare l’umanità

“Violenza”, “fanatismo”, “falsificazione della religione”. Sono queste le principali conseguenze dell’”oblio di Dio” e dell’”ignoranza del suo vero volto”. A parlarne è stato oggi Benedetto XVI, che nel tradizionale discorso di inizio d’anno al Corpo diplomatico ha ricordato che “la pace non sorge da un mero sforzo umano, bensì partecipa dell’amore stesso di Dio. Ed è proprio l’oblio di Dio, e non la sua glorificazione, a generare violenza”. “Dire a tutti e a ciascuno che nel rispetto del diritto naturale, nell’ascolto delle altrui e delle proprie convinzioni più intime, nel coraggio necessario per lottare contro tutti i mali da qualunque parte provengano risiede l’avvenire di tutte le nostre civiltà e la speranza di un’umanità riconciliata con se stessa”. Questo il compito della Chiesa, secondo il vicedecano del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Jean-Claude Michel, al quale il decano Alejandro Valladares Lanza ha dato subito la parola, dopo un breve cenno di saluto al Santo Padre. “L’intolleranza e il terrorismo – ha affermato Michel – non avranno mai l’ultima parola se lotteremo con tutte le nostre forze per sradicare le tentazioni oscurantiste dell’umanità”. Di qui l’opportunità di “ogni iniziativa tesa a favorire un dialogo interreligioso e costruttivo che sia il germe di una nuova società umana pluriculturale fondata sui valori comuni ad ogni individuo”. A questo proposito, il vicedecano ha deplorato gli attacchi “portati alla famiglia e al rispetto della vita”, attraverso leggi tese a “imporre alle coscienze una nuova definizione di famiglia, negando a un bambino il diritto ad avere un padre e una madre, e non solamente dei genitori, incitando i malati a precipitarsi nella morte piuttosto che a battersi per la vita”.

L’oblio di Dio e gli appelli per la pace. “Come si può evitare che la violenza diventi la regola ultima dei rapporti umani?”, si è chiesto Benedetto XVI, secondo il quale “senza un’apertura trascendente, l’uomo cade facile preda del relativismo e gli riesce poi difficile agire secondo giustizia e impegnarsi per la pace”. Per il Papa, l’oblio di Dio e l’ignoranza del suo vero volto “è la causa di un pernicioso fanatismo di matrice religiosa, che anche nel 2012 ha mietuto vittime” e che rappresenta “una falsificazione della religione stessa”. Di qui l’appello alle autorità civili e politiche, in particolare, per la Siria, per “porre fine a un conflitto che, se perdura, non vedrà vincitori, ma solo sconfitti, lasciando dietro di sé soltanto una distesa di rovine”. Appello anche per la Terra Santa, affinché si arrivi ad “una pacifica convivenza nell’ambito di due Stati sovrani, dove il rispetto della giustizia e delle legittime aspirazioni dei due popoli sia tutelato e garantito”. Non è mancato un appello accorato per la Nigeria, teatro di attentati terroristici contro i cristiani “riuniti in preghiera, quasi che l’odio volesse trasformare dei templi di preghiera e di pace in altrettanti centri di paura e di divisione”.

Prima la vita. Nella parte centrale del suo discorso, Benedetto XVI ha ricordato che “la costruzione della pace passa per la tutela dell’uomo e dei suoi diritti fondamentali”, primo fra tutti “il rispetto della vita umana, in ogni sua fase”. A questo proposito, il Papa ha salutato con favore la Risoluzione del Consiglio d’Europa che ha chiesto la proibizione dell’eutanasia, mentre ha stigmatizzato quei Paesi in cui “si è lavorato per introdurre o ampliare legislazioni che depenalizzano o liberalizzano l’aborto”. “Preoccupazione”, infine, anche per la decisione della Corte Interamericana dei Diritti umani relativa alla fecondazione in vitro, che “ridefinisce arbitrariamente il momento del concepimento e indebolisce la difesa della vita prenatale”.

Non rassegnarsi. “Non rassegnarsi” allo “spread del benessere sociale”, mentre “si combatte quello della finanza”: questa la “ricetta” del Papa per la crisi, per vincere la quale “occorrere recuperare il senso del lavoro e di un profitto ad esso proporzionato”. Altro compito “urgente”, “formare i leaders” del futuro: “Anche l’Unione europea – ha detto il Papa – ha bisogno di rappresentanti lungimiranti e qualificati, per compiere le scelte difficili che sono necessarie per risanare la sua economia e porre basi solide per il suo sviluppo”. “Da soli alcuni Paesi andranno forse più veloci, ma, insieme, tutti andranno certamente più lontano”, ha ammonito il Papa deplorando “le crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi, e molti, irrimediabilmente più poveri”.

Persone giuste. “Per affermare la giustizia, non bastano buoni modelli economici, per quanto essi siano necessari”, perché “la giustizia si realizza soltanto se ci sono persone giuste”, ha spiegato il Papa: “Costruire la pace significa educare gli individui a combattere la corruzione, la criminalità, la produzione e il traffico della droga, nonché ad evitare divisione e tensioni, che rischiano di sfibrare la società, ostacolandone lo sviluppo e la pacifica convivenza”. La pace sociale, inoltre, “è messa in pericolo anche da alcuni attentati alla libertà religiosa”, da “marginalizzazioni della religione nella vita sociale” e da casi “di intolleranza, o persino di violenza nei confronti di persone di simboli identitari e di istituzioni religiose”. Per salvaguardare l’esercizio della libertà religiosa è quindi “essenziale rispettare il diritto all’obiezione di coscienza” sui principi “di caratteri etico e religioso, radicati nella dignità stessa della persona umana”, che sono come i “muri portanti di ogni società che voglia essere veramente libera e democratica”.

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
BENEDETTO XVI
PER LA QUARESIMA 2013

Credere nella carità suscita carità
«Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16)

 

Cari fratelli e sorelle,

la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede, ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.

1. La fede come risposta all’amore di Dio.

Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva… Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un ”comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, 1). La fede costituisce quella personale adesione – che include tutte le nostre facoltà – alla rivelazione dell’amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai “concluso” e completato» (ibid., 17). Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell’«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore – «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) –, è aperto in modo profondo e concreto all’amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.

«La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! … La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).

2. La carità come vita nella fede

Tutta la vita cristiana è un rispondere all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20).

Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12).

La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30).

3. L’indissolubile intreccio tra fede e carità

Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l’atteggiamento di chi mette in modo così forte l’accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo. Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall’attivismo moralista.

L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012). Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8).

In sostanza, tutto parte dall’Amore e tende all’Amore. L’amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l’annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell’Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri.

A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione della Lettera di san Paolo agli Efesini riassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10). Si percepisce qui che tutta l’iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente. La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.

4. Priorità della fede, primato della carità

Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all’azione dell’unico e medesimo Spirito Santo (cfr 1 Cor 13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal 4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3) e «Maranatha!» (1 Cor 16,22; Ap 22,20).

La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l’unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell’amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfr Rm 5,5).

Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l’Eucaristia. Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l’Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall’umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13).

Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!

Dal Vaticano, 15 ottobre 2012

BENEDICTUS PP. XVI

 

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dal numero 4 del 27 gennaio 2013