Le tappe dell’evangelizzazione

Facebooktwitterpinterestmail

Speciale INCONTRA – Pastorale giovanile

Le tappe dell’evangelizzazione

Don Bosco non voleva che i salesiani assumessero il compito delle parrocchie (scelta a lui successiva all’inizio del XX secolo) non per denigrarle, quanto per valorizzare il fatto che era più carismatico che si facesse un oratorio che poteva essere in grado di raccogliere tutti i giovani senza doversi soffermare su uno sterile territorialismo che, ora come ora, nella società del movimento e degli scarsi legami di appartenenza, non ha molto più senso di continuare ad esistere (L. Bressan, noto pastoralista di Milano, parla della parrocchia come fondamento della trasmissione della fede perché radicata nel territorio ma anche in grado di rimandare ad un “oltre” ulteriore di significato che oltrepassa la realtà e il luogo = eterotopia). Egli pretendeva che ogni sua opera, dai collegi alle scuole

professionali, fosse organizzata secondo il cosiddetto “criterio oratoriano”, cioè far diventare un semplice spazio aggregativo un luogo di proposta, fondamento di uno stile educativo che ancora oggi è valido: “Casa che accoglie, cortile per incontrarsi da amici, scuola che educa alla vita, parrocchia che evangelizza”. I verbi che identificano il criterio oratoriano non sono messi a caso e possono diventare strumento di verifica, progettazione e implementazione di un modo nuovo di evangelizzare i giovani e farli sentire realmente cristiani e appartenenti alla Chiesa.

 

1. Accogliere. Potrebbe sorgere immediata la domanda di verifica su quanto le nostre realtà ecclesiali e parrocchiali siano in grado di essere accoglienti nei confronti dei giovani. Accogliere significa avere le porte aperte per loro e non ridurre il tutto ad una questione di “orari ambulatoriali”. Altrimenti troveranno altrove ciò di cui hanno bisogno. Accogliere significa saper conoscere l’altrui realtà, saper abitare gli spazi, il linguaggio, il modo di essere e di vivere dei giovani (“conoscere” non è sinonimo di “approvare”), i loro tempi e il loro modo di relazionarsi: significa sapere cosa sia Facebook (ma non per questo ridurlo ad unico strumento di contatto o di confronto!), saper mandare un messaggio, aiutarli a capire i significati e i comportamenti leciti e illeciti di alcune loro condotte, delle parole delle loro canzoni preferite o dei telefilm cult che guardano in streaming. Saper stare con loro richiede “non essere come loro” (al largo dai giovanilismi fallaci), ma prima di tutto aiutarli a capire chi essi siano e che cosa possano chiedere alla propria vita, agli amici, al loro futuro. Significa aprir loro gli occhi positivamente e speranzosamente e non vederli come semplici passivi attori di una vita che non li vede protagonisti e che trova nel nostro agire di rifiuto, di condanna, di allontanamento, di presa di distanza la conferma del loro pessimismo. DonAndreaBrugnoli,fautoreconleSentinelledelMattino della Nuova Evangelizzazione, dopo aver incontrato migliaia di ragazzi lontanissimi dalla fede e dalla preghiera e che per una sera si mettono in adorazione del Signore, si trova in imbarazzo a proporre una fede quotidiana e feriale a quei giovani che l’hanno appena scoperta perché rischiano di perderla a causa di una base ecclesiale che non è in grado di accogliere questi “ricomincianti” del credere che varcano quella soglia.

 

2. Incontrare. Il fondamento della fede è credere in qualcosa ma anche sapere che altri come me vivono di quella fede, credono in quella persona, sperimentano le mie fatiche e le mie gioie. Questo sottintende che ci siano degli spazi concreti nei quali la fede, con la declinazione giovanile, trovi espressione concreta, manifestazione, condivisione, comunione. L’incontro è una categoria che sottintende molto ma prima di tutto evidenzia un camminare verso l’altro reciproco, chiede anche di saper rinunciare a qualcosa pur di entrare in contatto con l’altro e la sua realtà. L’oratorio diventa quindi prima di tutto un luogo di incontro, un luogo nel quale generare relazioni che poi diventano significative per entrambi. Non significa che occorre aspettare che i giovani vengano a noi, perché 

rimarremo delusi. Significa proporre loro qualcosa non tanto da fare (anche) ma un progetto chiaro su chi essere. Questo evidenzia prima di tutto (mettendo a nudo i nervi scoperti) la volontà che essi siano presenti come sono, ma anche il coraggio, la costanza la fermezza di proporre loro qualche passo avanti nella fede (non semplicemente riempire spazi ma avviarli ad un cammino di fede e preghiera, percorso fatto anche di richieste e passi difficili con il coraggio di rischiare e di additare loro mete grandi da raggiungere e non accontentarsi del qualunquismo o della paura di perderli riducendo la pastorale ad un fare di basso profilo).

 

3. Educare ed evangelizzare. I due termini non vanno disgiunti perché non possiamo pensare alla valorizzazione e alla scoperta del proprio essere da parte dei giovani che il Signore affida alla Chiesa come semplice raggiungimento di tappe umane o solo spirituali. L’epoca del dualismo è finita, da una parte perché i giovani non conoscono di avere un’anima e sperimentano un rapporto conflittuale con il proprio corpo, e dall’altra perché le emozioni, il vivere di ogni giorno passa attraverso questi due filtri che valorizzano la prassi a sfavore della teoria. Ma ne evidenziano anche le sottili incongruenze. Ogni azione della Chiesa deve essere azione che propone una crescita umana e una crescita dello spirito, deve proporre il Vangelo (quanto conoscono i giovani della Parola di Dio? Quanto la proponiamo e l’approfondiamo? Quanto dedichiamo al fondamento della fede piuttosto che preoccuparsi di più delle declinazioni morali/pratiche?), e deve essere in grado di generare comunione piuttosto che arroccamenti difensivi nei propri possedimenti carismatici e di appartenenza. L’oratorio, come spazio aggregativo di primo impatto e di primo contatto di molti giovani con la Chiesa e la fede, è in grado di stabilire quest’alleanza con il mondo giovane che necessita di persone che siano in grado prima di tutto di prendersi cura della loro vita (il compito del pastore è quello di andare a cercare la pecora smarrita; questo comporta il cercare e non solo l’aspettare se mai dovrà accadere). È quindi mancante di una parte importante dell’identità ecclesiale quella comunità parrocchiale che non è in grado di proporre nulla di significativo per i giovani, perché è il Vangelo stesso che ci insegna e ci forma a metterci alla ricerca degli ultimi e dei lontani. Questo comporta l’assunzione di uno stile di dialogo e di comunione tra operatori pastorali (quanto brutta è l’espressione che si sente dei “miei ragazzi” sperimentata come possesso) e non certo di divisione o stile concorrenziale. Comporta il saper proporre qualità della formazione e della spiritualità in grado di muovere le corde dei giovani, ma anche di saper parlare “come loro” e “a loro”. Capiamo quindi quale ricchezza ci sia dietro uno spazio come l’oratorio (nel nome sottendente, da subito, la dimensione della preghiera e della fede) ed è quanto mai riduttivo e fuorviante immaginarlo solo come spazio gioco o alternativa sorvegliata al babysitteraggio. L’oratorio può diventare lo strumento per la Chiesa di essere in mezzo alla vita dei suoi fedeli, educarli, evangelizzarli, far sentire che il Signore ha ancora parole per ciascuno di essi, chiunque essi siano. A conclusione citiamo quanto gli orientamenti “Educare alla vita buona del Vangelo” tracciano come pista di sviluppo per l’oratorio: “La necessità di rispondere alle loro esigenze porta a superare i confini parrocchiali e ad allacciare alleanze con le altre agenzie educative. Tale dinamica incide anche su quell’espressione, tipica dell’impegno educativo di tante parrocchie, che è l’oratorio. Esso accompagna nella crescita umana e spirituale le nuove generazioni e rende i laici protagonisti, affidando loro responsabilità educative. Adattandosi ai diversi contesti, l’oratorio esprime il volto e la passione educativa della comunità, che impegna animatori, catechisti e genitori in un progetto volto a condurre il ragazzo a una sintesi armoniosa tra fede e vita. I suoi strumenti e il suo linguaggio sono quelli dell’esperienza quotidiana dei più giovani: aggregazione, sport, musica, teatro, gioco, studio” (n. 42).

P. De Cillia, sdB

 

 

da NUOVA SCINTILLA 11 del 18 marzo 2012