Educatori ed evangelizzatori

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Speciale INCONTRA – Pastorale giovanile

L’oratorio come luogo di sintesi e di approccio alla realtà giovaile

Educatori ed evangelizzatori

I due termini – educatori ed evangelizzatori – possono essere presi singolarmente oppure (come deve essere) tenuti assieme poiché oggi il ruolo pastorale si muove unicamente su questo binomio. Scrive A. Matteo come introduzione al suo testo “La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede” (Rubbettino, 2010): «Come non menzionare le questioni della laicità, dell’inizio e del fine vita, del trattamento degli embrioni, dell’equa distribuzione planetaria delle risorse, dell’accoglienza degli immigrati, dell’identità culturale europea e del rapporto con l’Islam? Non dovrebbero forse essere questi gli argomenti più scottanti per l’agenda ecclesiale

all’inizio del secondo decennio del terzo millennio? La questione dei giovani pone un problema dimensionalmente differente. Con essa si gioca nulla di meno che il futuro del Cristianesimo. Senza giovani cristianamente convinti, di seguito non sarà più possibile far udire la voce dei credenti nei luoghi ove si decide del bene comune». In gioco, nel ruolo di educatori ed evangelizzatori, c’è proprio il futuro del Cristianesimo: la Chiesa locale ed universale ha il doveroso compito di prendere seriamente a cuore la questione, non solo per riempire le chiese, ma per dare un volto e uno spessore cristiano alla società del prossimo futuro. È un compito che forse ci troverà impegnati solo a seminare a favore di qualcun altro, che raccoglierà i frutti della nostra capacità evangelizzatrice e di testimonianza. L’oratorio può essere il luogo di sintesi e di approccio ad una realtà giovanile che non sempre è in grado di essere raggiunta dal nostro agire pastorale tradizionale (e/o tradizionalista). Non sembrano infatti funzionare altri canali di contatto con loro: il catechismo (o il più equilibrato termine di Iniziazione Cristiana) vive la fatica della trasmissione della fede alle giovani generazioni che decidono altrove il loro essere e la loro identità; la liturgia sembra essere un linguaggio che spesso si confonde con il ritualismo e recupera un linguaggio simbolico che non trasmette significati e senso a chi vi partecipa ma sperimenta una ferialità ben differente (come ad esempio il carattere della paternità divina a chi la paternità umana la vive come un dramma. Come parlare di unione e rispetto se il contesto familiare tende alla separazione e al contrasto?). I giovani sono altrove o cercano altro dalla Chiesa, sempre pronti a mettere in evidenza i contrasti e le fragilità (i più per stereotipi o slogan ripetuti meccanicamente, poiché mancano di solide basi riflessive e culturali), poco desiderosi a volte di entrare in dialogo, molte più volte rifiutati dal contesto ecclesiale perché non collocabili e definibili secondo gli schemi consueti. Necessitano quindi di un luogo che possa essere baluardo per la proposta di Chiesa e di evangelizzazione. L’oratorio diventa quindi quel possibile approdo, e non terra di nessuno, presso il quale può esserci la prova fondamentale del primo contatto e della proposta evangelica. Altrimenti quali altre “situazioni”siamoingradodidare? Diventapossibileapprodo innanzitutto perché alla base ci deve essere una dinamica di proposta (luogo scelto dal ragazzo, non imposto) cioè sapere bene cosa piace ai ragazzi e come renderlo luogo educativo partendo dai loro interessi (non gridiamo allo scandalo per oratori o patronati trasformati in occasionali discoteche o sale giochi con tanto di Playstation o Wii di turno. Occorre imparare un linguaggio nuovo per farsi capire ed insegnare il linguaggio della fede, senza interpreti ed intermediari). La proposta comporta la dinamica dell’incontro (don Bosco i ragazzi li andava a prendere per strada) contro una pastorale che staziona ed attende più che agire (per poi chiedersi: «Perché non vengono?»). Incontro che attiva una dinamica relazionale, ovvero non basta che vengano nei nostri ambienti ma sappiamo che sono accolti e desiderati per quello che sono (“Gesù, guardatolo, lo amò”: la prima cosa da fare è voler bene ai giovani per come essi sono, non per i cloni che ne vogliamo fare; sappiano che sono stimati, ricambieranno anche loro). Un vero incontro che segna la vita genera a sua volta appartenenza, cioè saper stare piacevolmente in un contesto con determinate persone. L’appartenenza però non deve diventare recinto chiuso ma generare comunione a tutti i livelli (ad intra e ad extra della parrocchia e/o dell’oratorio). La relazione comporta anche la dinamica della verità. Avere il coraggio di proporre obiettivi importanti (uno propone quando ha qualcosa da dare, progettualità non improvvisazione) e di sostenere il loro cammino di conversione anche con interventi che sappiano correggere (nell’epoca del “sì” difficile trovare il coraggio di qualche “no”!) non certo con la paura di perderli che ci porterebbe a facili compromessi poco educativi. Questi quattro aspetti sono stati introdotti dalla parola dinamica: fare pastorale è prima di tutto azione, darsi da fare, impegno, lavoro, gioie ed ostacoli da superare e/o condividere. Non è sedentarietà, attesa, passività perché saranno altri i luoghi che decreteranno l’educazione e la formazione dei giovani d’oggi. La pastorale è evangelica quando come il Vangelo si mette in movimento lungo le strade polverose del XXI secolo, in grado di accogliere chi cerca guarigione e sostegno, in grado di incontrare le miserie e le povertà nei crocicchi delle strade.

don Paolo De Cillia, sdB

 

 

 

Da NUOVA SCINTILLA 11 del 18 marzo 2012